martedì 29 luglio 2008

I giudici ciechi di Bolzaneto

L'articolo della Repubblica. Mi trova perfettamente, tristemente d'accordo.

Il legislatore non vuole che la giustizia penale funzioni


da "UGUALE PER TUTTI La legge! ... è ... dev'essere ... speriamo che sia ... dobbiamo fare in modo che sia ..."

Pubblichiamo, con il consenso dell'Autore e dell'Editore, un capitolo tratto dal libro "Toghe Rotte", edito da Chiarelettere e in libreria dal 20 settembre.

di Bruno Tinti
(Procuratore Aggiunto della Repubblica di Torino)

Mi hanno chiesto tante volte perché i giornali sono sempre pieni di notizie di scandali vari; perché nessuno di quelli che sembra li abbiano commessi sta mai in prigione; perché, anche dopo che questa gente è stata condannata per qualcuno di questi scandali, poi la ritroviamo coinvolta in scandali successivi; perché perfino i reati più comuni e, sotto certi aspetti, più gravi (rapine, estorsioni, sequestri di persona, traffico di droga, di armi, di bianche e colorate varie, corruzioni, infortuni sul lavoro, perfino omicidi) spesso sono commessi da gente che è stata già condannata per altri reati e che però è in giro a fare danni. Insomma mi hanno chiesto tante volte perché la giustizia non funziona.
Spesso me la sono cavata con questa storiella che, in genere, fa ridere e che mi ha salvato da un discorso che ormai mi dà la nausea. Siccome contiene grandi verità e aiuta a capire le cose, mi pare giusto cominciare con lei; si può intitolare “Come ammazzare la moglie e vivere felici”.
Allora. Per prima cosa si ammazza la moglie
La si ammazza con particolare efferatezza, adoperando sevizie e agendo con crudeltà verso le persone (dunque la si accoltella più volte dopo averla legata e torturata per giorni e giorni) sì da integrare l’aggravante prevista dall’art. 61 n. 4 codice penale; e lo si fa allo scopo di conseguire l’impunità dal reato di truffa per averla depredata di tutti i suoi averi (art. 61 n. 2 codice penale)
Subito dopo essersi assicurati che sia morta davvero si corre dai Carabinieri insieme con un avvocato e, in sua presenza, si rendono dichiarazioni spontanee (che quindi saranno utilizzabili processualmente; in assenza dell’avvocato di quel verbale si può fare carta straccia) con le quali li si avvisa che la moglie è morta, che la si è ammazzata personalmente e che il cadavere si trova, in uno con gli strumenti usati per torturarla e l’arma o le armi del delitto, in via tale numero tale al piano tale, interno tale; la porta è stata chiusa per evitare che estranei potessero contaminare il luogo del delitto ma la chiave viene consegnato illico et immediate ai Carabinieri.
I Carabinieri si recano sul luogo del delitto, constatano la rispondenza al vero di quanto denunciato dall’assassino, effettuano prelievi, accertamenti di polizia scientifica e i necessari sequestri.
Non arrestano il marito omicida perché:
1) - non sussistono specifiche ed inderogabili esigenze attinenti alle indagini relative ai fatti per i quali si procede, in relazione a situazioni di concreto e attuale pericolo per l’acquisizione o la genuinità della prova, fondate su circostanze di fatto espressamente indicate nel provvedimento (art. 274 codice di procedura penale comma 1 lett. A)
Il marito uxoricida infatti ha avvertito subito i Carabinieri che hanno raccolto tutte le prove ed anche la sua confessione. Sicché è escluso ogni pericolo di inquinamento probatorio.
2) - l’imputato non si è dato alla fuga né sussiste concreto pericolo che egli si dia alla fuga, (art. 274 codice di procedura penale comma 1 lett. B)
L’uxoricida si è presentato immediatamente ai carabinieri e questo, per giurisprudenza costante, esclude che dal suo comportamento possa desumersi l’intento di darsi alla fuga (e in effetti, se non si becca qualcuno con il piede sulla scaletta di un aereo diretto in Uruguay e con documenti falsi, non potremo mai dire che egli intende darsi alla fuga perché, se i documenti fossero veri, quello ci direbbe che sta per intraprendere un viaggio di piacere e non si potrebbe provare il contrario)
3) - Non si può, per specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità della persona sottoposta alle indagini, desunta da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali, pensare che sussista il concreto pericolo che questi commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si procede (Art. 274 codice di procedura penale comma 1 lett. C)
L’immediata confessione e l’essersi messo a disposizione dell’Autorità rendono impossibile ritenere che sussista il concreto pericolo etc.
E comunque trattasi di incensurato e specchiato lavoratore che nulla permette di ritenere intenda commettere gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata
Quanto ai delitti della stessa specie di quello per cui si procede, il nostro una moglie aveva e ormai l’ha ammazzata.
Iniziata l’indagine penale, il PM non chiederà misure cautelari e comunque il giudice non le concederebbe per tutti i motivi sopra spiegati.
L’indagine è brevissima, proprio perché le prove sono state tutte acquisite; si riduce a sentire i testi indicati dall’uxoricida a spiegazione del suo gesto e quelli indicati dai parenti della vittima.
Si arriva in breve all’udienza preliminare per il reato di cui agli artt. 575, 576 e 577 codice penale (omicidio che prevede la pena dell’ergastolo)
Ebbene:
L’uxoricida chiede di essere giudicato con il rito abbreviato che, a norma dell’art. 442 codice di procedura penale comma 2, prevede che la pena, determinata tenendo conto di tutte le circostanze, sia diminuita di un terzo.
Le circostanze aggravanti sono quelle di cui all’art. 61 n. 4 del codice penale (sono state adoperate sevizie) e 61 n. 2 (si è agito per assicurarsi il profitto della truffa).
La pena prevista è l’ergastolo.
Solo che:
L’uxoricida dimostra di avere ammazzato la moglie, e tanto crudamente, perché lei lo tradiva con il suo migliore amico (che, in quanto migliore amico, sarà ben lieto di confessare, a pagamento, una circostanza che non gli porta nessun nocumento – anzi, la moglie morta era giovane e bella e sarà invidiato da tutti – e che nessuno potrà smentire); sicché al nostro assassino tocca l’attenuante di cui all’art. 62 n. 2 codice penale, aver agito in stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui, avendo fortunosamente appreso dell’illecita e odiosa relazione della fedifraga.
Inoltre l’uxoricida farà offerta reale di una congrua somma di danaro ai parenti della moglie, a risarcimento del danno morale e materiale (la donna era solita sovvenirli con periodiche donazioni) cagionato, sicché gli tocca anche l’attenuante di cui all’art. 62 n. 6 codice penale (risarcimento del danno).
Infine egli potrà godere delle attenuanti previste dall’art. 62 bis codice penale che nessuno sa perché si concedono ma si concedono sempre; infatti si chiamano attenuanti generiche e vengono concesse perché si è tanto giovani, perché si è tanto vecchi, perché si è condotta una vita specchiata e meritevole, perché si è condotta una vita vergognosa ma la colpa non è tua, è del sistema, della scuola, della famiglia che tutti insieme hanno abusato di te, perché si è confessato (unica cosa giusta nel caso di specie) etc.
A questo punto il giudice deve governare (bella parola) l’art. 69 del codice penale secondo cui, in soldoni, si deve stabilire se pesano più le attenuanti o più le aggravanti (o se pesano nella stessa misura) e, nel caso di prevalenza delle une o delle altre, applicare solo gli aumenti o solo le diminuzioni. Manco a dirlo, il caso di soccombenza delle attenuanti non esiste quasi nella giurisprudenza italiana; sicché:
1) - una volta venute meno le aggravanti, la pena per l’omicidio non è più quella dell’ergastolo ma quella della reclusione da 24 a 30 anni (omicidio del coniuge, art. 577 codice penale);
2) - I giudici non danno il massimo della pena manco se li ammazzi; quindi 24 anni.
3) - Meno un terzo per il 61 n. 2, fa 16
4) - Meno un terzo per il 62 n. 6 fa 11,33 periodico;
5) - Meno un terzo per il 62 bis fa 7,5 mesi
6) - Meno un terzo per il rito abbreviato fa 5
7) - Siccome la moglie la si è ammazzata prima del maggio 2006, 3 anni di reclusione sono abbonati per l’indulto
8) - Per i restanti 2 anni c’è la sospensione condizionale della pena.
9) - Abbiamo comunque un anno di buono se le diminuzioni non vengono applicate nel massimo perché fino a 3 anni c’è l’affidamento in prova al servizio sociale.
A questo punto, di solito, tranquillizzo le mogli spiegando che tutto questo non è proprio verissimo perché il nostro saggio legislatore ha previsto l’art. 67 comma 1 n. 2 del codice penale che, nel caso di delitti originariamente puniti con la pena dell’ergastolo, limita le possibili diminuzioni, dovute ad attenuanti varie, fino a una pena minima di anni 10. In genere molti mi fanno osservare saggiamente che questa è la legge attuale ma appena qualcuno che conta ammazzerà la moglie e sarà beccato questa norma sarà senz’altro abrogata.
Io assento malinconicamente e comunque spiego che, se vogliamo restare proprio a termini di legge, in ogni caso si applica la legge Gozzini (per ogni anno di detenzione che sia stato scontato senza demerito – non con merito, buona condotta etc, tutti concetti desueti, basta non aver fatto casino - si abbuonano 3 mesi); sicché dopo 5 anni e qualche cosa si è ammessi alla detenzione domiciliare con ammissione al lavoro esterno, che vuol dire che la galera si sconta a casa quando si è finito di lavorare; più o meno come facciamo tutti noi.
Poi, arrivati a tre anni di pena residua, c’è l’affidamento in prova al servizio sociale.
Così, in conclusione, alla fine ammazzare la moglie costa 5 anni di galera mal contati.
Forse questa storiella è sufficiente per capire come mai la giustizia italiana funziona proprio poco e comunque male; ma, chi ha voglia di capire davvero può leggersi il breve corso post-universitario che segue.
La pena
Il corso accelerato di diritto e pratica penale comincia dalla sanzione: ogni reato è punito con una pena detentiva o pecuniaria, oppure entrambe; la pena varia da un minimo a un massimo; dove il minimo non è previsto, esso si intende, per le pene detentive - che sono quelle che ci interessano - , non inferiore a 5 giorni di arresto per le contravvenzioni e a 15 giorni di reclusione per i delitti.
I gradi di giudizio
La pena va inflitta con una sentenza di condanna che arriva all’esito di un processo; in realtà i processi sono più di uno perché nel nostro democratico e garantistico Paese ci sono 3 gradi di giudizio, Tribunale, Appello e Cassazione; e perché la pena possa essere eseguita occorre che tutti questi gradi di giudizio siano stati fatti, ovvero che sia trascorso il termine per proporre appello o ricorso in Cassazione. In molti civilissimi Paesi, come la Svizzera, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti, non ci pensano nemmeno a fare tanti processi: uno basta e avanza (in alcuni casi c’è la possibilità di un ricorso all’equivalente della nostra Cassazione); ma noi siamo meglio, lo sanno tutti, abbiamo tempo e soldi che ci escono dalle orecchie.
Il fatto che i gradi di giudizio siano 3 non significa mica che i processi sono 3; possono essere di più, anche assai di più. Può avvenire infatti che la Cassazione ravvisi una nullità nel processo di 1° grado (Tribunale) o in quello di 2° grado (Appello); in questi casi il processo deve essere rifatto lì dove è stata commessa la nullità e poi, naturalmente, nuovamente riesaminato nei gradi di giudizio successivi. Ci sono stati casi (vi dice niente il nome di Adriano Sofri?) in cui sono stati fatti più di 15 processi, tra avanti e indietro.
In realtà poi i gradi di giudizio non sono 3 ma 4: esiste infatti l’Udienza Preliminare nella quale si valuta si ci sono prove sufficienti per fare un processo. E’una cosa un po’difficile da capire: uno pensa che se Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza e Pubblico Ministero hanno raccolto prove contro qualcuno, poi ci vuole un Giudice per stabilire se queste prove sono valide e se questo qualcuno deve essere condannato oppure se è tutta fuffa e il qualcuno è vittima di un complotto o di una serie di deficienti che hanno preso lucciole per lanterne. Invece no, da noi ci vuole un Giudice (si chiama GUP, Giudice dell’Udienza Preliminare) che stabilisce se è il caso che un altro Giudice faccia un processo e valuti le prove; e come fa a stabilirlo? Beh, è ovvio, valuta le prove pure lui. E per farlo procede ad accertamenti vari, interrogatori, perizie, riconoscimenti di persona, insomma tutto quello che farà il secondo Giudice, se il primo (il GUP) decide che si deve fare il processo. Insomma due processi uguali, il primo che serve per stabilire se si deve fare il secondo.
La cosa fantastica è che il GUP, prima di mandare il fascicolo al Giudice del dibattimento, dà ordine di buttare via tutto quello che è stato fatto fino ad allora in modo che questo Giudice non sappia e non capisca niente di quello che è successo e debba ricominciare tutto da capo. Si chiama”garanzia della terzietà del giudice del dibattimento”, che significa che si dovranno interrogare di nuovo tutti i testimoni, rifare tutte le perizie etc. etc.; tanto la gente ricorda tutto con esattezza anche 5 o 6 anni dopo i fatti; e poi, ovviamente, nessuno ha pensato bene di andargli a spiegare il vangelo dicendogli quello che si deve ricordare e quello che è meglio che si dimentichi. E poi che volete che sia pagare di nuovo un altro perito per vedere, 5 o 6 anni dopo, se quello di prima era completamente scemo oppure solo un pò: tanto, l’ho già detto, i soldi ci escono dalle orecchie.
Le indagini della Procura della Repubblica
Prima dei processi c’è l’indagine: la fanno la Polizia, i Carabinieri, la Guardia di Finanza, le ASL, i VV.UU, le Dogane, l’Ufficio delle Imposte, la Guardia Forestale, l’INPS etc.; e tutta questa gente manda il risultato dell’indagine al Pubblico Ministero. A lui arrivano anche le denuncie inviate direttamente dai cittadini che si ritengono vittime di reati.
Il Pubblico Ministero guarda tutto (magari; comunque guarda tutto nel giro di un annetto o due, così è ovvio che si crea un pò di arretrato; dipende dalle Procure della Repubblica, si va da 3 mesi a 2 anni appunto) e poi fa altre indagini anche lui: interroga i testimoni, gli imputati, fa perizie, rogatorie, intercettazioni telefoniche ed ambientali e tante altre cose.
Questa storia delle intercettazioni è un po’ un teatrino, ogni volta il PM deve chiedere il permesso di farle ad un altro Giudice che si chiama GIP (Giudice delle Indagini Preliminari); da solo non può.
Questo GIP è lo stesso che ogni tanto fa il GUP solo che si cambia etichetta; la cosa complicata è che se un Giudice ha fatto il GIP in un’indagine poi non può fare il GUP in quella stessa indagine. Il principio è che un Giudice non deve sapere niente di quello su cui gli viene chiesto di decidere; deciderà in base a quello che si svolge davanti a lui; insomma, meno capisce e meglio è. Nei Tribunali piccoli ovviamente questo è un problema perché magari di GIP – GUP ce ne è uno solo o al massimo due e capita spesso che entrambi hanno fatto il GIP in una certa indagine oppure quello che potrebbe farlo è malato, in ferie, occupato etc.; così a un certo punto non si sa a chi far fare il GUP e finisce sempre che si deve chiamare qualcuno da qualche altro Tribunale. Tutto ciò naturalmente fa perdere un po’di tempo, sia nel posto dove si fa l’indagine, sia in quello da dove viene prelevato il GUP supplente che qualche cosa da fare in genere ce l’ha anche lui. Ma le garanzie di difesa prima di tutto.
Torniamo alle intercettazioni. Il PM manda tutto il fascicolo al GIP spiegando come, perché e a chi vuole fare le intercettazioni. Passano i mesi e a un certo punto il GIP (che nel frattempo non è che è andato a divertirsi, ha fatto altre centocinquanta cose del genere) gli risponde; può dirgli di si o di no. Il punto è che, anche se il GIP dice di si, forse dopo tanto tempo quelle intercettazioni non vale più la pena di farle. Comunque in genere ci si prova lo stesso.
Un altro sistema è quello di fare le intercettazioni senza l’autorizzazione del GIP, in via d’urgenza come si dice; naturalmente l’urgenza va motivata, il che non è molto difficile: forse si stanno commettendo reati o qualcuno sta per scappare o per distruggere prove importanti etc.; ci vuole fantasia, che diamine. In questi casi il GIP deve convalidare tutto nelle 48 ore; e in genere lo fa. Che poi nelle 48 ore si sia letto davvero i 3, 4 o 50 faldoni che contengono le prove che quello che gli dice il PM è proprio vero e che sono necessarie proprio quelle intercettazioni, beh, questa è un’altra storia.
Sia come sia, le intercettazioni cominciano. Ma finiscono subito perché la legge (articolo 267, 3° comma del codice di procedura penale) dice che possono durare solo 15 giorni. Se il PM vuole continuarle deve chiedere una nuova autorizzazione, una proroga.
Qui la cosa diventa umoristica ma in realtà tragica. Fare intercettazioni non è come andare a pesca, è un’indagine delicata, costosa, impegnativa, che occupa un sacco di gente che deve stare lì a sentire telefonate notte e giorno e avvisare subito il PM se succede qualcosa di importante; se si fa è perché serve proprio. Magari in 15 giorni non è ancora saltato fuori niente però può essere necessario continuare; magari si scopre che quel telefono è poco usato e che se ne usa un altro (nuova autorizzazione); magari uno degli intercettati parte per l’Africa e dice all’altro che tornerà fra 20 giorni e che si sentiranno allora (nuova autorizzazione). Insomma, qui si apre il balletto delle richieste di proroga e di autorizzazione. C’è una regola empirica da osservare con attenzione; continuando nell’esempio della pesca, se il PM dice che non ha ancora pescato nemmeno una trota ma che ci sono buoni motivi per pensare che presto abboccheranno, il GIP potrebbe non dargli l’autorizzazione perché – può pensare – in quel lago pesci non ce n’é. Ma se il PM dice che ha pescato un sacco di trote e che bisogna continuare perché se ne pescheranno altre, c’è il rischio che il GIP pensi che le trote siano già abbastanza e che è inutile continuare a pescare. Così la regola è che il PM dica sempre che di trote se ne sono pescate, si, ma poche e piccoline, e che è necessario prenderne altre; in questo modo l’autorizzazione è più sicura.
Tutto questo naturalmente passa per l’invio e la restituzione di tonnellate di carta che contengono dichiarazioni, documenti, consulenze, insomma tutto quello che serve per convincere il GIP che l’intercettazione è necessaria; e le tonnellate partono e arrivano al 13° giorno, due giorni prima della scadenza, perché si deve sfruttare tutto il possibile di quello che si intercetta. Così il povero GIP (che non ha certo solo questa cosa da seguire) deve decidere in 24 ore circa se concedere o no questa benedetta autorizzazione. E deve deciderlo per forza perché se l’intercettazione continua senza autorizzazione, poi si butta via tutto e, tra l’altro, intercettare costa un sacco di soldi. Così autorizza, incrociando le dita; o magari non autorizza, e l’indagine è fregata.
A un certo punto dell’indagine, poi, magari è necessario catturare qualcuno; anche qui serve il GIP, il PM gli manda le solite tonnellate di carta e la richiesta di”applicazione di misura cautelare”(una volta si chiamava”mandato di cattura”ma era effettivamente troppo crudo, si capiva subito che ti mettevano in prigione; del resto anche la prigione non si chiama più così, adesso si chiama”Casa Circondariale”. Però sempre celle con sbarre e tavolacci sono). E qualche volta si cattura.
Il Tribunale della Libertà
E qui c’è la crème de la crème, la panacea di tutti i mali, l’ultimo ritrovato in fatto di garanzie difensive, il Tribunale della Libertà, familiarmente chiamato il tielle (TL). L’imputato può fare appello al TL e chiedere che annulli il provvedimento del GIP che lo ha mandato in prigione.
Sicché non basta che Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza etc. abbiano raccolto prove per mesi; non basta che il PM abbia valutato e magari raccolto prove pure lui; non basta che il GIP abbia valutato e abbia deciso che il tizio sta proprio bene in galera. No. Serve che il TL sia d’accordo, che anche questo Tribunale (3 Giudici, mica uno) condivida tutto quello che è stato fatto.
E come fa a condividere? Deve studiarsi gli atti, naturalmente. Ma siccome gli atti servono anche al PM, si debbono fare copie. Quante? Beh, questo dipende. In primo luogo dal fatto che la fotocopiatrice funzioni, che il toner non sia finito e che ci sia la carta. E poi perché qui si apre il dilemma del Tribunale della Libertà. Bisogna mandare abbastanza prove da convincerlo che Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza, PM e GIP hanno avuto ragione e che Tizio deve stare in galera. Solo che queste prove le vede subito pure l’avvocato di quello che sta in galera, anzi in genere il motivo per cui è stato fatto appello al TL è proprio quello,”leggersi le carte”. Ora, in genere, su quelle carte non c’è solo quanto riguarda Tizio carcerato; c’è anche tante altre cose che riguardano altri, che ancora debbono essere presi; o nei cui confronti si stanno raccogliendo prove; ci sono i resoconti delle intercettazioni, da cui si capisce quali e quanti telefoni sono”sotto”, come si dice; ci sono i nomi dei testimoni che hanno reso dichiarazioni accusatorie e che non sono tanto contenti di essere conosciuti da quello che, per via di quelle dichiarazioni, è finito o finirà in gattabuia. Insomma, ci sono tantissime cose che gli avvocati e i loro clienti non devono sapere per il momento e che invece vogliono tanto sapere: perché così i catturandi potranno scappare e nascondersi, i documenti potranno essere distrutti, i testimoni potranno essere avvicinati e”convinti”che non hanno visto bene, che non sanno con precisione, che non ricordano, etc. etc.
Così il PM fa gli omissis, che non è una faccenda da poco: si prende il verbale di interrogatorio, lo si copia e lo si”sbianchetta” nelle parti che è meglio non far conoscere alle difese (però attenzione, non si può sbianchettare troppo se no il TL rischia di non convincersi e di scarcerare l’imputato); si scelgono i documenti, questo lo si manda, questo no. Insomma si forma il fascicolo del TL che alla fine, nei processi importanti, e nonostante tutti gli omissis, magari è composto da decine di migliaia di pagine. E lo si manda.
Qui comincia il calvario del TL che ha 10 giorni per studiare un’indagine che è durata mesi o anni, nel corso della quale un PM ha impiegato mesi per scrivere la richiesta di misura cautelare, un GIP se l’è studiata per altri mesi, consultando tutti (tutti tutti) i documenti del fascicolo, poi ha scritto anche lui per parecchi giorni fino a produrre il famoso provvedimento impugnato. E lui, il TL, anzi loro, i poveri 3 Giudici che lo compongono, debbono decidere in 10 giorni (da dividere con altre decine di appelli analoghi che gli sono arrivati nel frattempo), e sulla base di un fascicolo dimezzato, se Tizio deve restare in galera oppure no.
Adesso, che si deve pensare della geniale mente giuridica che ha ideato questa cosa? In quale mondo viveva? Cosa pensava che sarebbe successo?
Quello che succede nei fatti è molto semplice: il TL scrive i suoi provvedimenti come può, visto il tempo e gli atti che ha a disposizione; e forse Tizio resta in galera. Ma siccome anche questi provvedimenti sono soggetti a ricorso in Cassazione (tanto è gratis), quasi tutti presto o tardi vengono annullati perché nemmeno Rocco, Calamandrei e Cordero (tutti celebri giuristi del passato o del presente) potrebbero scrivere qualche cosa di decente con queste premesse e in queste condizioni. L’unica fortuna è che, come al solito, anche per arrivare al provvedimento della Cassazione ci va un po’di tempo e intanto l’indagine va avanti con Tizio che per un po’, visto che sta in galera, non manipola prove e testimoni e non scappa all’estero.
L’ultima perla è che gli appelli al TL possono essere reiterati, che vuol dire che se ne possono sempre fare di nuovi; basta che si aggiunga un argomento nuovo. Ora, se c’è una cosa che gli avvocati sanno fare bene, è questa di trovare argomenti a difesa. Non importa che siano fondati, importa che siano nuovi. Così il TL dovrà pronunciarsi un’altra volta e si potrà fare un altro ricorso per Cassazione. Magari i 3 giudici del TL sono diversi, magari la Cassazione cambia idea, e poi comunque appelli e ricorsi possono essere parcellati. Sicché altre copie (ma forse quelle di prima bastano), altri omissis, altri faldoni, altri commessi che viaggiano avanti e indietro con i carrelli, altri provvedimenti, altri ricorsi. In un giro perverso senza fine che termina solo con la conclusione dell’indagine. Che, si capisce, non è stata rallentata per nulla da tutto questo ambaradam.
Il processo
Insomma, per riassumere e nel caso uno si stia stropicciando gli occhi dicendo: ma non è possibile, si conferma: prima di arrivare ad una sentenza definitiva si deve passare attraverso un’indagine del PM che può essere caratterizzata da numerosi ricorsi e appelli al Tribunale della Libertà e da ricorsi in Cassazione contro i provvedimenti di questo; e 4 successivi processi (Udienza Preliminare, Dibattimento, Appello e Cassazione), per i primi 3 dei quali è possibile un’impugnazione che può anche determinare il ritorno del processo alla fase precedente. Una tela di Penelope giudiziaria vista la quale c’è da meravigliarsi che, nonostante tutto, qualche processo arrivi ad essere definitivamente celebrato.
Si capisce quindi che, per arrivare a questa sentenza definitiva ci va del tempo: difficile quantificare questo tempo, poiché, a parte la complessità del processo, molto dipende dall’impegno delle difese che, per prima cosa, tirano alla prescrizione (vedi un po’più avanti); e poi, si sa, dum pendet rendet che, in latino maccheronico, significa: fino a che il processo c’è il cliente paga. Si può dire che un processo (attenzione, tutto il processo, dall’indagine del PM alla Cassazione) banale (furto d’auto, ad esempio) richiede, oggi, un minimo di 6 anni; un processo difficile, importante, con molti imputati, può richiedere anche tre volte tanto. Ma tutto ciò non tiene conto del tempo passato tra il momento in cui il reato viene commesso e quello in cui si comincia ad indagare. Mica sempre l’indagine comincia il giorno stesso in cui è stato commesso il delitto: per un omicidio, una rapina, può darsi; ma per una corruzione, una frode fiscale, un falso in bilancio si comincia in genere molto tempo dopo, anche 3 o 4 anni. Chi glielo dice al Pubblico Ministero che c’è stato un reato di questo tipo? Il socio o il pubblico ufficiale che ne hanno ricavato un sacco di soldi? Certo che no. Quindi bisogna aspettare il caso fortunato, una verifica casuale della Guardia di Finanza o dell’Ufficio delle Imposte, un complice pentito, un articolo di giornale, una botta di fortuna insomma.
Ecco perché il tempo del processo è lunghissimo, tra una cosa e un’altra da un minimo di 6 anni fino a… mah, 15, 20, chi lo sa?
La prescrizione
Quanto tempo trascorre prima che un processo finisca è molto importante per il cittadino parte offesa e per l’imputato innocente: tutti e due hanno interesse a che il processo finisca presto e bene, che vuol dire per il primo risarcimento del danno e per il secondo fine di un incubo e restituzione dell’onorabilità perduta. Ma ancora più importante, in chiave opposta, si capisce, è per l’imputato colpevole: perché uno può essere condannato solo se non è trascorso il tempo necessario perché il reato di cui è imputato venga considerato prescritto. Quando invece è maturata la prescrizione, anche se l’imputato è giudicato colpevole (perché comunque il Giudice, se ritiene che l’imputato sia innocente lo deve dichiarare, anche se il reato è prescritto; quindi una sentenza di prescrizione è sempre una sentenza che ha accertato la colpevolezza), il reato viene dichiarato estinto e nessuna pena può essere inflitta. Sicché si capisce bene che l’imputato colpevole ha un interesse fondamentale: evitare di essere processato e definitivamente condannato prima che il reato da lui commesso sia prescritto.
Il termine di prescrizione è stabilito dall’articolo 157 del codice penale e dipende dalla pena massima prevista per il reato: più questa è elevata, più il termine di prescrizione è lungo: si va dai 30 anni per l’omicidio ai 5 anni circa per una contravvenzione (i calcoli sono un po’ complessi, questa è la risultante finale). In realtà però il termine di prescrizione può essere assai più corto perché esso dipende dal fatto che siano stati posti in essere i cosiddetti atti interruttivi, come previsto dall’articolo 160 del codice di procedura penale; vale a dire, in buona sostanza, una serie di attività processuali che presuppongono, appunto, l’apertura di un procedimento. Sicché, se, per esempio, nessuno ha denunciato un falso in bilancio commesso nel 2003, dopo appena 4 anni, alla fine del 2007 per intendersi, il reato sarà prescritto e non potrà più aprirsi alcun procedimento penale.
E’evidente allora che la pena prevista per ogni reato serve a determinare quanto tempo è necessario perché questo si prescriva: più la pena è elevata nel massimo, maggiore è il tempo necessario per la prescrizione. Se si considera la cosa da un altro punto di vista, e tenuto conto che il legislatore sa benissimo quali sono i tempi del processo penale, la previsione di una pena massima poco elevata serve ad impedire che si faccia a tempo a terminare il processo. E’facile capire quindi che pene miti equivalgono ad una garanzia di impunità.
A tutto questo qualcuno potrebbe obbiettare che il legislatore (ma chi sarà costui, sarebbe bello saperlo; alla fine tutti dicono che è stato quell’altro, quell’altro partito, quell’altra corrente, quell’altro insomma) si è fatto carico del problema e ha previsto una cosa importante, che in effetti fa molta impressione ai cittadini ignari di cose giudiziarie: se uno è già stato condannato, se è un delinquente conclamato, i termini di prescrizione aumentano e quindi lo si può condannare ancora. Il che è vero. Solo che questo legislatore non ha pensato che questo discorso vale per i soliti poveracci, quelli che vengono arrestati per essere venuti alle mani con un vigile urbano o perché, appena giunti dal Senegal, hanno spacciato due dosi di hashish per conto del trafficante che è comodamente seduto al vicino caffè (è questa la gente che affolla le carceri). Ma non vale, il discorso, per chi falsifica i bilanci, evade le imposte, corrompe i pubblici funzionari etc: questo individuo è sempre un incensurato, certamente non ha mai rubato in un supermercato un pezzo di formaggio né ha picchiato un carabiniere che gli chiedeva i documenti; ed è destinato a restare incensurato a vita perché i processi che contano non arrivano mai ad una sentenza di condanna. Si apre così un circolo perverso per il quale gente di questa risma non viene mai condannata una prima volta, non diventa mai”censurata”e quindi non viene mai condannata nemmeno in seguito.
Sicché questa è la prima frontiera del processo penale: arrivare alla prescrizione.
E ci si arriva sempre o quasi. Con un processo che dura un minimo di 10 anni, tutti i reati che si prescrivono in 5 o in 7 e mezzo sono matematicamente prescritti prima della fine.
Quanti sono questi reati? Il 95 % di tutti quelli che vengono commessi.
Non so se sono necessari commenti. Forse si: Forse è bene dire chiaramente che tutte le contravvenzioni in materia antinfortunistica, ambientale, ecologica, di inquinamento; tutti i delitti di corruzione, falso in bilancio, frode fiscale; tutti i delitti di maltrattamento in famiglia e violazione degli obblighi di assistenza famigliare, tutti i delitti di falsa testimonianza, tutti i delitti di truffa, anche ai danni dello Stato o di Enti Pubblici o dell’Unione Europea; tutti questi delitti e tanti altri che non cito perché sarebbe un elenco lunghissimo non saranno mai puniti. Nessun processo per questi delitti si concluderà con una sanzione effettiva. Nessuno che abbia commesso uno di questi delitti andrà mai in prigione.
I riti speciali
Il nostro geniale legislatore tutte queste cose non le sapeva; e così, pensando che il processo penale si sarebbe fatto, presto e bene, ha inserito nel codice due”riti alternativi”. Sono, questi, due particolari tipi di processo che consentono uno sconto di pena pari a un terzo e si chiamano patteggiamento e abbreviato.
Una parvenza di razionalità a fondamento di questi speciali tipi di processo ci sarebbe pure, una volta tanto. Nel patteggiamento ci si mette d’accordo tra accusa e difesa per evitare il processo: meno tempo, meno spese, meno fatica; concordiamo la pena e finiamola qui. Sicché è giusto che ci sia un premio per l’imputato, uno sconto di pena pari a un terzo in meno rispetto a quanto gli toccherebbe presumibilmente se venisse processato. Nel processo abbreviato l’imputato dice che può fare a meno del processo vero, quello in cui si interrogano di nuovo tutti i testi, si rifanno di nuovo tutte le perizie etc. etc. e che accetta di essere giudicato in base a quello che risulta dalle indagini fatte dal PM (per la verità con il tempo gli sono stati assicurati altri vantaggi: adesso ha diritto ad una”integrazione probatoria”, può pretendere che siano fatte indagini ulteriori). Anche in questo caso, si risparmiano un po’di soldi, di tempo e di fatica, e quindi viene concesso uno sconto; solo che, non si capisce perché, lo sconto è uguale a quello previsto per il patteggiamento, un terzo di pena in meno, nonostante che nel giudizio abbreviato tempo e fatica si spendono comunque e che, soprattutto, sono possibili Appello e ricorso per Cassazione, proprio come per un processo vero; e dunque le possibilità di tirarla in lungo fino alla prescrizione rimangono quasi intatte.
In ogni modo non vale la pena di prendersela troppo: tanto di questi processi speciali non se ne fanno praticamente più. Il che è ovvio: tutti quei calcoli sulla prescrizione, sulla durata del processo, sull’impossibilità di arrivare in tempo ad una sentenza definitiva li sanno fare benissimo anche gli avvocati. E allora quale sarà il mentecatto che consiglierà al suo cliente di accettare un processo che dura poco tempo e si concluderà con una condanna, sia pure più lieve, quando ha la certezza di tirarla in lungo fino alla prescrizione e di non scontare nemmeno un giorno di galera? Ovviamente nessuno. Anche perché, come si è detto, più il processo dura, più il cliente paga e quindi vi è una reale convergenza di interessi tra l’imputato e il suo difensore: il primo sarà comunque assolto; e il secondo guadagnerà un sacco di soldi.
Così c’è un patteggiamento solo che si fa: quello in Appello, quando gli avvocati, fattisi due calcoli, capiscono che il rischio di arrivare in tempo a una sentenza definitiva, confermata dalla Cassazione, è alto. E qui si baratta il tempo di celebrare l’appello e la fatica di scrivere una sentenza con una, anche grossa, diminuzione della pena inflitta dal Tribunale: capita che gli 8 anni per una rapina diventino 4 o 5, i 10 anni per un grosso traffico di droga diventino 5 o 6 e così via. E questa cosa è molto importante perché il momento di uscire di prigione con tutti gli onori per via di qualche altro assurdo istituto di cui parleremo più avanti (semidetenzione, lavoro esterno, affidamento in prova al servizio sociale) si avvicina molto.
La sospensione condizionale della pena
Fino ad ora si è visto che, per tanti motivi, il processo non si fa; o meglio, si fa, ma non viene condannato nessuno.
Però non si sa mai; qualche volta (poche poche) ad una sentenza in tempo utile ci si arriva; e uno si aspetterebbe che, a questo punto, il colpevole finisca in prigione. E qui, se ci fermiamo a considerare quanto tempo il condannato dovrà passare in prigione, le sorprese aumentano.
L’articolo 163 del codice penale prevede che chi è condannato ad una pena non superiore a 2 anni, se è incensurato, cioè se non è mai stato condannato in precedenza (ma se ha in corso processi non ancora conclusi lui è, come si dice, formalmente incensurato), in prigione non ci vada proprio: la condanna resta sospesa per 5 anni, dopo di ché, se il nostro non ha commesso altri reati, non ci andrà mai più. Non solo, questa sospensione condizionale della pena (in gergo tecnico si chiama così) può essere concessa per due volte, sempre che non si superino complessivamente i 2 anni di reclusione. Insomma si può essere condannati due volte: se la pena complessiva non supera i due anni di reclusione, niente prigione.
Le circostanze attenuanti
La pena prevista dal codice penale per un determinato reato non ha niente a che fare con quella a cui si viene condannati; a diminuirla sostanziosamente ci pensano le circostanze attenuanti che sono previste all’articolo 62 del codice penale. Una volta stabilita la cosiddetta pena base, essa può essere ulteriormente diminuita di un terzo per ogni attenuante riconosciuta: per esempio, una pena di 6 anni di reclusione può essere ridotta ad 4 anni, e poi a 2 anni e 8 mesi, e poi 1 anno e 7 mesi e 15 giorni (circa) etc..
E’vero che esistono anche le aggravanti, previste all’articolo 61 del codice penale; ma, secondo quanto disposto dall’articolo 69 del codice penale, quando esistono aggravanti e attenuanti insieme, si deve procedere a quello che viene chiamato giudizio di bilanciamento, decidendo in buona sostanza se pesano di più le une o le altre; e, manco a dirlo, quelle che restano sono sempre le attenuanti.
Ora, il problema è che le attenuanti sono già tante per conto loro (i motivi di particolare valore morale e sociale, lo stato d’ira, la suggestione della folla in tumulto – si proprio così - , il danno lieve, il risarcimento del danno); ma non basta: c’è anche quella prevista dall’articolo 62 bis del codice penale, le attenuanti generiche. Come dice la parola, queste attenuanti sono generiche, senza contenuto preciso; possono essere concesse (e di fatto lo sono) per i più vari motivi: perché si è giovani e non si comprendeva appieno il disvalore del fatto (questo scrivono alcuni giudici); ovvero perché si è in età avanzata, e ciò merita un trattamento sanzionatorio differenziato (è in gestazione una legge che prevede come le attenuanti generiche debbano essere obbligatoriamente concesse a tutti gli imputati che hanno superato i 65 anni di età); ovvero perché si è Presidenti del Consiglio e questa particolare carica istituzionale ne impone la concessione (è una motivazione reale, di una sentenza di Cassazione realmente pronunciata). Si capisce bene quindi che le attenuanti generiche vengono concesse sempre o quasi; tanto che, nelle aule di giustizia, si dice che le attenuanti in questione sono come un bicchier d’acqua: non si negano a nessuno.
Anche le attenuanti generiche permettono la diminuzione della pena di un terzo; e così è evidente che la pena minima prevista dal legislatore per un determinato reato non è minima per niente: perché può essere, e di fatto è, diminuita ancora moltissimo.
Così quasi sempre in prigione non ci si va comunque, anche se la pena iniziale era superiore, anche molto superiore ai 2 anni; perché poi con le attenuanti sotto i 2 anni ci si finisce comunque.
La sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria
Può capitare che il condannato non sia incensurato: in tempi meno garantiti qualche condanna gliel’hanno ficcata. Oppure non si vuole sprecare la sospensione condizionale della pena: può tornargli buona in futuro. Allora si ricorre ad altre soluzioni. Quella molto praticata è sostituire la prigione con i soldi.
Secondo l’articolo 53 della legge 24 novembre 1981, n. 689, ogni pena detentiva che non superi i 6 mesi può essere sostituita con una pena pecuniaria: ogni giorno di prigione vale 38 euro; e dunque 6 mesi di prigione possono essere evitati con una multa pari a 6.840 euro.
Si, ma 6 mesi sono pochi, magari si è condannati a una pena più alta … Beh, facciamo attenzione. Il codice penale prevede sempre un massimo e un minimo; certe volte addirittura il minimo non è previsto. Ora non si è mai capito bene perché, ma ottenere dai Giudici condanne a pene superiori al minimo è sempre stata una cosa difficilissima. Certe volte ci si è riusciti per i reati tradizionalmente gravi, omicidi, rapine, estorsioni, traffico di droga. Ma superare i minimi di pena per falsi in bilancio, frodi fiscali, corruzioni, bancarotte, inquinamenti vari, abusi edilizi etc. è talmente raro che le volte in cui ciò capita possono essere contate sulle dita di una mano di un infortunato sul lavoro (tanto per restare in tema). Forse i Giudici sono convinti che perdonare sia una cosa buona; e quindi sono portati a infliggere pene miti, giocando un po’ a fare Dio misericordioso; forse pensano che l’assunzione di responsabilità di chi perdona o assolve sia inferiore a quella di chi condanna o comunque infligge pene severe; forse sono semplicemente figli del loro tempo e pensano che evadere le tasse e pagare qualche bustarella non sia in fondo così grave; non si sa. Certo è che per un certo tipo di reati pene che superino l’anno, l’anno e mezzo di prigione sono rarissime; e comunque si attestano saldamente sul minimo previsto dal codice.
Solo che qui intervengono i meccanismi di riduzione della pena: con due attenuanti, magari risarcimento del danno e attenuanti generiche, una pena originaria di un anno scende a 5 mesi e 10 giorni; se si sceglie un rito alternativo (il patteggiamento o l’abbreviato) a 5 mesi e 10 giorni si arriva partendo da un anno e mezzo. E Giudici che ficchino un anno e mezzo di prigione ce ne è proprio pochi.
Così, con meno di 6.000 euro, il processo si chiude; gli amici daranno pacche sulle spalle e si congratuleranno per lo scampato pericolo. E - ma non sarebbe bene che qualcuno cominciasse a preoccuparsi? - si è pronti a ricominciare.
La sostituzione della pena detentiva con la libertà controllata
Magari a 6 mesi di prigione, pur con tutta la buona volontà, non ci si arriva; la pena resta inesorabilmente superiore, forse 8 mesi, 1 anno. Ma ci sono altri mezzi per farla franca. Uno è previsto dallo stesso articolo 53 della legge 689 del 1981, quello già citato prima: si tratta della libertà controllata.
Che roba è? Non si sta in carcere, ecco tutto. Se uno è stato condannato a una pena che non supera l’anno e non può o non vuole spararsi la sospensione condizionale della pena, non va in prigione comunque. Ha qualche restrizione, non può allontanarsi dal comune di residenza senza autorizzazione, ogni tanto deve farsi vedere dalla Polizia, gli ritirano la patente (ma magari ha l’autista) e il passaporto (per l’Unione Europea non gli serve); però in prigione non ci va. E, come al solito, ad anni 1 di prigione ci si arriva anche partendo da una pena di 3 anni (due attenuanti e un rito alternativo e il gioco è fatto).
Anche qui dunque, nel deprecato caso di un processo che si faccia veramente, il delinquente può stare tranquillo.
La sostituzione della pena detentiva con la semi detenzione
Quello che fa proprio arrabbiare le brave ed oneste persone è la semidetenzione.
E’sempre il solito articolo 53 che prevede che per pene fino a 2 anni (dunque con partenza da 4 e mezzo mal contati) la prigione è sostituita con la semidetenzione. E cos’è? Semplice, si torna a dormire in carcere; per il resto si sta fuori con gli stessi limiti della semilibertà. Insomma ti risolvono il problema dell’alloggio. Questo ha commesso qualche grave reato, lo condannano, lo mandano a spasso e gli danno anche da dormire.
Per arrabbiarsi bene fino in fondo un’ultima chicca: questo articolo 53 risale, come si è visto, al 1989. Solo che allora i limiti di pena previsti per la sostituzione della pena con i soldi, con la libertà controllata e con la semidetenzione erano 1 mese, 3 mesi, 6 mesi; siccome in quegli anni c’era l’inflazione (è una scemata, ma non mi viene in mente nessuna altra valida ragione) nel 1993 questi limiti sono stati portati a 3 mesi, 6 mesi e 1 anno; e poi, nel 2003, ai livelli attuali, 6 mesi, 1 anno 2 anni.
A quando un ulteriore adeguamento? Magari quando qualche persona che conta sia stato condannato, nonostante tutto, a 3 anni di galera?
L’affidamento in prova al servizio sociale
In ogni modo, nessun imputato si preoccupa troppo di finire in prigione, perché, se il processo fortunosamente arriva alla fine, se viene emessa sentenza di condanna, se la pena è superiore a 6 mesi e dunque non si può convertire in pena pecuniaria; se non si riesce a restare nei limiti che consentirebbero la sospensione condizionale della pena; se non riesce a godere della libertà controllata e nemmeno della semi detenzione; se tutto va male (dal punto di vista del condannato, si capisce), vi è una esilarante uscita di sicurezza: l’affidamento in prova al servizio sociale (in luogo della prigione) per tutti i condannati a pena non superiore a 3 anni, così come previsto dall’articolo 47 dell’ordinamento penitenziario. Questo significa che, per restare in tema, un amministratore di una importante società, condannato ad una pena superiore a 2 anni ma inferiore a 3, non finirà in prigione e dovrà adattarsi a riferire ad un assistente sociale come e qualmente sia pentito delle malefatte di cui è stato giudicato colpevole, quale sia il tipo di vita che conduce (naturalmente del tutto diverso da quello menato fino ad allora), in qual modo sta emendandosi etc. etc.
Che nessuno abbia mai seriamente osservato qualcosa sull’incongruità di simile istituto non cessa di stupirmi.
Per la verità, siccome l’appetito vien mangiando ed è pur vero che l’affidamento in prova ai servizi sociali viene comunque dopo una sentenza di condanna, è recentissima la proposta di legge n. 3452 (secondo i quotidiani essa è stata qualificata”urgente”) secondo la quale per reati puniti fino a 3 anni di carcere (i”reati che contano”sono, guarda caso, puniti sempre con pene non superiori a 3 anni) il processo può essere sospeso e l’imputato affidato ai servizi sociali; a fare cosa non viene detto con precisione, ma certo qualcosa da far fare a un Amministratore di società o a un Presidente di Consiglio di Amministrazione si troverà. Così non solo l’impunità è certa ma si evita anche una scomoda sentenza che affermi che il reato venne commesso e che a commetterlo fu proprio l’imputato.
La detenzione domiciliare
Mica è sufficiente; qualcuno potrebbe essere condannato a pena superiore a 3 anni. Niente paura: fino a 4 anni, l’art. 47 ter dell’ordinamento penitenziario consente ai delinquenti di scontare la pena a casa loro o in qualsiasi altro luogo essi indichino.
Il nostro delinquente tipo, quello che si è portato a casa qualche milione di euro a seguito di uno dei tanti reati che non vengono mai accertati, non vengono mai puniti e, se pure puniti sono, mai mai mai lo saranno con pene superiori a 4 anni; sconterà dunque la sua pena presso un qualche hotel Excelsior con piscina, sala conferenze, suite con idromassaggio e collegamenti multimediali con il resto del mondo. Oppure, per farla più semplice, presso la sede della sua società, opportunamente riattata per ospitarlo in un lussuoso appartamento. Gli tocca non uscire, questo è vero; ma non credo che gli mancheranno visite e distrazioni.
Una chicca importante da considerare è che questa detenzione domiciliare non è consentita solo se uno ha avuto 4 anni di prigione; gliela danno quando ”arriva”a 4 anni. Vale a dire che se è stato condannato a 6 anni, se ne fa (ma è da vedere) 2 e poi gli viene data la detenzione domiciliare.
La semi libertà
L’ultima trovata è la semi libertà (art. 48 dell’ordinamento penitenziario).
Chiunque può essere ammesso alla semi libertà che significa che se ne va in giro a lavorare, a fare vita sociale, a fare, come dice virtuosamente la legge, ”attività utili al reinserimento sociale”; e poi la sera torna in carcere.
Attenzione: questo beneficio può essere concesso qualsiasi sia la pena che uno deve scontare, purché ne abbia scontata la metà; quindi se uno è stato condannato a 10 anni di prigione, dopo averne scontati 5 (formalmente, vedi più avanti la famigerata”legge Gozzini”) se ne va in giro tranquillamente, salvo rientrare in prigione per dormire.
La legge Gozzini
1 anno sono 12 mesi per chiunque; ma per quelli che stanno in prigione sono 9 mesi.
Ciò perché l’art. 54 dell’ordinamento penitenziario prevede che”al condannato che abbia dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione”vengano detratti dalla pena che deve scontare 1 mese e 15 giorni per ogni semestre, 3 mesi all’anno appunto.
Insomma 6 anni di galera non sono 6 anni ma sono 4 anni e mezzo; 10 anni sono in realtà 7 anni e mezzo e via così.
La cosa allucinante di questa faccenda è che i Giudici hanno finito con l’interpretare la”partecipazione all’opera di rieducazione”nel senso che il nostro condannato non deve aver fatto casino. Insomma, non è richiesto che abbia salvato un giovane compagno di cella dal tentativo di stupro del trucido pluricondannato; non è necessario che abbia svolto attività di assistenza ai malati; non gli si chiede di lavorare gratis al servizio dell’Amministrazione carceraria; niente di tutto questo. Basta che pensi agli affari suoi e non sollevi problemi.
Ancora più incredibile è che ogni semestre la valutazione parte ex novo, senza considerare i semestri trascorsi: così, se un detenuto ha messo su una bella rivolta, repressa a fatica con l’uso delle armi; ma poi il semestre successivo è stato tranquillo a leccarsi le ferite in infermeria, beh, gli vengono riconosciuti 1 mese e mezzo di abbuono sull’anno
Si capisce bene quindi che arrivare alla metà della pena inflitta non è così difficile come sembra; e a quel punto c’è la semi libertà. Se poi si arriva con qualche mese di galera ai 4 anni residui, ecco che scatta la semidetenzione; e poi dopo un annetto, l’affidamento in prova al servizio sociale.
Riassunto
Dopo tante pagine di informazioni così sconvolgenti, il lettore starà sicuramente dicendosi”non ci posso credere”,”ma veramente?”o qualcosa del genere.
Si, ci si deve credere; ecco una tavola sinottica:
Il processo termina, nel 95 % dei casi con una sentenza di non doversi procedere perché il reato è estinto per prescrizione
Nei restanti casi:
a) le pene fino a 6 mesi di prigione vengono convertite in pene pecuniarie: 38 euro al giorno, 6 mesi sono 6840 euro
b) le pene fino a 2 anni non si scontano: c’è la sospensione condizionale della pena
c) se non si può avere la sospensione condizionale della pena:
d) pene fino ad un anno di prigione vengono scontate con la libertà controllata (si sta a casa propria o dovunque si voglia, basta comunicarlo alla Polizia)
e) pene fino a due anni di prigione vengono scontate con la semidetenzione; si va in giro durante il giorno e si dorme in carcere (sempre che non si usufruisca dell’affidamento in prova al servizio sociale)
f) pene fino a 3 anni di prigione vengono scontate con l’affidamento in prova al servizio sociale: si svolge qualche attività socialmente utile (mi pare che Previti voglia fare l’avvocato dei bambini) e si è liberi come l’aria
g) pene fino a 4 anni di prigione vengono scontate con la detenzione domiciliare: (si sta a casa propria o dovunque si voglia, basta comunicarlo alla Polizia); naturalmente arrivati a 3 anni scatta l’affidamento in prova al servizio sociale
h) sia l’affidamento in prova che la detenzione domiciliare scattano quando si arriva alla soglia dei 3 anni per il primo e dei 4 per la seconda; quindi funzionano pure per gente condannata a pene gravissime (ma in pratica non ce n’è); insomma gli ultimi 4 anni in un modo o nell’altro vengono abbuonati
i) il tempo che si passa in galera passa più in fretta: 9 mesi valgono un anno; quindi uno condannato a 6 anni in realtà ne deve fare solo 4 e mezzo; anzi solo mezzo, perché poi c’è la detenzione domiciliare per un anno e per i restanti 3 anni c’è l’affidamento in prova al servizio sociale.
A questo punto, sapete chi ci sta in carcere? Qualche omicida e qualche rapinatore, una sterminata quantità di extracomunitari che hanno rubacchiato o spacciato qualche dose; e - per poco, pochissimo tempo – qualche delinquente che il PM e il GIP hanno arrestato mentre si svolgono le indagini e che, per scadenza termini o perché il TL li ha messi fuori, sono usciti dopo 2 o 3 mesi, pronti a trascinare il processo fino alla prescrizione.
L’indulto
A tutto questo si aggiunge (non si sostituisce, proprio si aggiunge) la grande opera di magnanimità, pietà e pragmatismo cui, da subito, si è dedicata la nuova maggioranza: l’indulto.
La parola è, nella pratica, sinonimo di condono: vuol dire, in buona sostanza, che un certo numero di anni di galera, inflitti a seguito di tutti quei processi di cui abbiamo visto all’inizio le ridicole ma costosissime caratteristiche, viene abbuonata. Sei stato condannato a 2 anni di galera? Fa niente, abbiamo scherzato, non ti ci mandiamo. Sei stato condannato a 3 anni di galera? (magari per aver truffato un centinaio di milioni di Euro alla Regione, allo Stato, all’Unione Europea, di cui nulla è stato recuperato e che restano a tua disposizione in una banca della isole Cayman) E’lo stesso, non se ne fa niente, vai e spenditi i tuoi soldi. Sei stato condannato a 6 anni di galera per corruzione in atti giudiziari, falso in bilancio, truffa, evasione fiscale etc. etc.? Fa niente, 3 anni te li abbuoniamo e per gli altri 3 c’è l’affidamento in prova al servizio sociale.
Ecco perché l’indulto si somma, non sostituisce: perché si aggiunge a tutti gli altri sconti, perdoni, soluzioni alternative che si sono già viste. Insomma, condanne fino a 6 anni di reclusione (per reati commessi a tutto il maggio 2006) non si scontano proprio; per quelle un po’superiori condono, affidamento in prova al servizio sociale e poi, a scelta, legge Gozzini (quella dell’anno che vale 9 mesi), detenzione domiciliare, libertà controllata.
Perché l’indulto è stato votato da quasi tutti i partiti, senza distinzione di fede e di schieramento, è una cosa difficile da spiegare: i cittadini non erano per niente d’accordo, la motivazione era ridicola (dobbiamo sfollare le carceri: ah si? E allora perché avete compreso nell’indulto falso in bilancio, frode fiscale e altri reati di questo tipo per i quali manco uno era in prigione?), le strade si sono affollate di rapinatori e ladri che hanno subito ricominciato; perché sarà stato fatto non si sa.
Certo che qualcuno che era obbligato a stare in carcere a casa sua (non era proprio scomodo, bella casa in bel posto di bellissima città) adesso si dedica a servizi di pubblica utilità”sorvegliato”da un assistente sociale; ma basta per quella che viene pomposamente chiamata ”Legge dello Stato”?
Sapere che condanne fino a 6 anni non si scontano fa proprio effetto.
Però, ora che ci penso, anche sapere solo che non si scontano condanne fino a 4 anni, anche quello fa effetto. Ai cittadini tutti. Ve lo immaginate che effetto fa a uno che ci lavora per arrivare a questo risultato?

martedì 15 luglio 2008

G8, sentenza choc: "Niente torture a Bolzaneto"

Sulla Stampa di oggi compariva un articolo ben più clamoroso di quello seguente, sulle ingiustizie di chi tra i giudici non ha riconosciuto come torture le atrocità commesse dalla polizia nella caserma di Bolzaneto a Genova nel 2001. Praticamente i pochi condannati, si diceva, non entreranno nemmeno in carcere grazie alla "furbissima" legge sull'indulto.
Veramente scandalosi i giudici e incredibile che sul web quell'articolo non compaia...


da "Repubblica" di oggi

Violenze a Bolzaneto, l´accelerata dei pm per dribblare il decreto "blocca processi" porta a una clamorosa decisione. Solo quindici condanne: "Un verdetto a metà"
di Massimo Calandri e Marco Preve
I pochi reduci presenti in aula scuotono la testa o si abbracciano tra loro. Non bastano i due milioni di euro che dovranno essere versati alle parti civili, a cancellare lo sconforto che li assale dopo al lettura della sentenza. Per il carcere speciale di Bolzaneto, per le violenze e gli abusi subiti da centinaia di detenuti del luglio 2001, il processo si chiude con al condanna di 15 imputati e l´assoluzione di altri 30. I reati riconosciuti dai giudici confermano l´abuso di autorità ma vengono meno i motivi abbietti, la crudeltà, e altri comportamenti vessatori che insieme servivano a disegnare un profilo di ipotetica "tortura" reato non presente nell´ordinamento italiano e che probabilmente è destinato a starne ancora lontano.
Lunedì 14 luglio alle 21.50 c´erano anche altri abbracci nell´aula magna di palazzo di giustizia. Erano gli avvocati di alcuni dei poliziotti, dei medici, o delle guardie penitenziari assolti. Tra i pochi imputati presenti in aula anche l´ispettore Aldo Tarascio, una lunga militanza nel sindacato Cgil che è stato assolto assieme al collega della questura di Genova Franco Valerio per non aver commesso il fatto.
Tra i condannati, alcuni dei principali imputati. Alessandro Perugini che all´epoca era il vice dirigente della Digos è stato condannato ad una pena di due anni e quattro mesi. Stessa pena Anna Poggi, una funzionaria che era la sua più stretta collaboratrice all´interno di Bolzaneto. Per l´ispettore della penitenziaria Biagio Gugliotta la pena più pesante: 5 anni di reclusione. Pesante la pena inflitta anche ad un agente genovese, Massimo Pigozzi, 3 anni e due mesi, per aver letteralmente lacerato la mano ad un fermato divaricandogli le dita.
Tra le posizioni più difficili quella di Giacomo Toccafondi, il medico del Dipartimento penitenziario accusato da più testimoni e imputato per numerosi episodi. Per lui i pm avevano chiesto oltre tre anni, ed è stato invece condannato ad un anno e due mesi. Un altro medico, Aldo Amenta, ha avuto una pena di dieci mesi. Le altre condanne: Daniela Maida, un anno e sei mesi; Matilde Arecco, Natale Parisi, Mario Turco e Paolo Ubaldi, un anno di reclusione ciascuno; Antonello Gaetano, un anno e tre mesi; Barbara Amadei, nove mesi; Alfredo Incoronato, un anno; Giuliano Patrizi, cinque mesi. Assolti tutti i carabinieri, altri agenti della penitenziaria e poi anche i generale della stessa amministrazione Oronzo Doria, per il quale erano stati chiesti tre anni e sei mesi.
«Nella sostanza l´accusa di abuso d´autorità è stato riconosciuta. Inoltre è stata riconosciuta la responsabilità di diversi imputati». Questo il commento a caldo del pm Vittorio Ranieri Miniati. «E´ stato riconosciuto - ha proseguito Miniati, che ha sostenuto l´accusa insieme a Patrizia Petruzziello - che qualcosa di grave nella caserma di Bolzaneto è successo. Il tribunale ha ritenuto di assolvere diversi imputati. Leggeremo la sentenza e valuteremo se fare appello. Complessivamente è un giudizio di soddisfazione a conclusione del processo e dopo un´istruttoria che ci ha impegnato per anni».
Laura Tartarini, avvocato e una delle anime del Genoa Legal Forum: «E´ una sentenza che contiene un evidente messaggio politico. Mettere la gente al muro e obbligarla a dire e urlare viva il Duce o viva Pinochet non è abbietto o futile. Ed è strano, perché questo stesso tribunale ha parlato di futilità giudicando le zuffe degli ultrà del calcio. Ma, evidentemente, i parametri probatori per i poliziotti sono diversi e molto "più alti" di quelli dei normali cittadini».
Sandro Vaccaro difensore del medico Toccafondi: «A Bolzaneto ci sono stati dei reati, è vero, ma erano fatti specifici, non ci sono state sevizie o abusi di ufficio. In altre parole Bolzaneto non era una lager».
La ricostruzione, in 600 pagine, dei fatti accaduti tra il 21 e il 22 luglio
Secondo i pm, ci furono torture. La corte non lo ha riconosciuto



Bolzaneto, il "girone infernale"
dove il diritto era sospeso
Bolzaneto, il "girone infernale" dove il diritto era sospeso
GENOVA - Nella notte tra il 21 e il 22 luglio 2001 la caserma di Bolzaneto, dove furono condotte le persone arrestate nei giorni del G8, è stata descritta dai pm "Un girone infernale" e un luogo di tortura fisico e psichico.
Secondo l'accusa sarebbero avvenuti episodi di vera e propria tortura che avrebbero violato la dignità umana e i più significativi diritti alla persona. Anche in infermeria, medici e agenti avrebbero inflitto vessazioni agli arrestati feriti.
I pm, nella loro lunga requisitoria, raccolta in una memoria di 600 pagine, affermarono che nella "caserma di Bolzaneto furono inflitte alle persone fermate almeno quattro delle cinque tecniche di interrogatorio che, secondo la Corte Europea sui diritti dell'uomo, chiamata a pronunciarsi sulla repressione dei tumulti in Irlanda negli Anni Settanta, configurano 'trattamenti inumani e degradanti'".
L'accusa però, non potendo contestare il reato di tortura, che non esiste nel nostro ordinamento, ha scelto di chiedere per i vertici apicali preposti alla struttura l'art.323 (abuso d'ufficio) oltre alla violazione della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, abuso d'autorità nei confronti di persone arrestate o detenute, minacce, ingiurie, lesioni. Il tribunale di Genova, con la sua sentenza, ha evidentemente deciso
I reati contestati saranno tutti prescritti nel 2009, ma le eventuali condanne consentiranno alle parti civili di chiedere un risarcimento o ottenere già oggi una provvisionale, chiesta da tutti i loro legali.
Nel "girone infernale", descritto dai pm, c'erano ragazzi e ragazze picchiati, tenuti ore e ore in piedi con le mani alzate, accompagnati in bagno e lasciati con le porte aperte, insultati, spogliati, derisi e minacciati di guai peggiori, tra cui la sodomizzazione, un salame usato come manganello, una mano divaricata e spezzata.
Le ragazze erano chiamate "troiè, "puttane" come accadde a Sara Bartezaghi a cui agenti dissero anche, ricordando la morte di Carlo Giuliani: "Ne abbiamo ammazzato uno, ne dovevamo ammazzare cento". C'è poi la testimonianza di Massimiliano A.,
36 anni, napoletano, disabile al cento per cento."Gli agenti mi hanno preso in giro - ha raccontato al processo - per la mia bassa statura, insultandomi con 'Nano buono per il circo', 'Nano di merda', 'Nano pedofilo'". Il pm ha ricordato che Massimiliano per un'ora non riuscì a farsi accompagnare in bagno, per cui si fece addosso i suoi bisogni e rimase sporco a lungo perchè gli impedirono di pulirsi.
Un altro episodio riguarda Katia L., minacciata dagli agenti di farle fare la stessa fine di Sole (Maria Soledad Rosas), l'anarchica argentina che si suicidò in carcere dopo la morte del compagno, entrambi arrestati nell'ambito dell'inchiesta sugli attentati contro la Tav in Valle Susa. La ragazza si sentì male e vomitando sangue venne portata in infermeria dove un medico le somministrò dell'ossigeno. Al rifiuto della ragazza di sottoporsi ad una iniezione il medico la liquidò:"Vai pure a morire in cella".
(14 luglio 2008)


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