mercoledì 31 dicembre 2008

Shock economy - un libro da leggere! (almeno un pezzo)


La Klein è veramente una giornalista in gamba e lo dimostra con un libro intelligente, ben scritto, equilibrato, ricco di fatti in primo luogo e poi di riflessioni profonde.
Non è un libro contro l'economia di mercato, come ho visto scritto da qualche parte, ma una critica a quell'"ultraliberismo" che ha fatto anche dei disastri una strategia per arricchire i più ricchi a spese dei più poveri.
Da leggere o almeno da sfogliare attentamente!

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"Shock Economy" è un agghiacciante e argomentato atto d'accusa contro un capitalismo di conquista che sfrutta cinicamente i disastri (a vantaggio di pochi) e ne produce in proprio di ancora peggiori. Come dimostra la tragedia irachena.

Che cosa hanno in comune l'Iraq dopo l'invasione americana, lo Sri Lanka posttsunami, New Orleans dopo l'uragano Katrina, le dottrine liberiste della Scuola di Chicago e alcuni esperimenti a base di elettroshock finanziati dalla Cia negli anni Cinquanta? L'idea che sia utile fare tabula rasa per costruire da zero una mente, un tessuto sociale, un'utopia: quella del fondamentalismo capitalista del libero mercato.

Solo uno shock provocato da un cataclisma naturale o dalla violenza intenzionale della guerra, del terrorismo, della tortura può trasformare il "politicamente impossibile" in "politicamente inevitabile". Sono parole del guru dell'ultraliberismo, Milton Friedman, che i suoi zelanti discepoli hanno messo in pratica con sconcertante abilità. Così, il trauma dell'11 settembre ha permesso a Bush di appaltare ad aziende private la sicurezza interna e la guerra all'estero; la ricostruzione dopo l'uragano ha cancellato in un attimo le case popolari e le scuole pubbliche di New Orleans; l'onda dello tsunami ha allontanato dalle coste centinaia di migliaia di pescatori, liberando le spiagge per nuovi villaggi turistici.

"È possibile che la filosofia del libero mercato metta a rischio l'idea e il futuro stesso di una società libera?
Sì. Per usare le parole di Condoleezza Rice, il mondo è veramente un posto incasinato" ha detto Umberto Eco dopo aver letto le bozze di questo libro.

"Siamo finalmente riusciti a ripulire il sistema delle case popolari a New Orleans" ha dichiarato un parlamentare repubblicano dopo l'uragano Katrina.
"Non sapevamo come fare, ma Dio l'ha fatto per noi."

Ottobre 2006, 3709 civili iracheni uccisi in un mese: "L'Iraq è stato meglio del previsto" scrive un analista finanziario nel suo rapporto trimestrale sui risultati dell'industria energetica Halliburton.

Pretacci - un libro da leggere!


Dalla prefazione al libro di Antonio Stella
Quello di Candido Cannavò è un reportage dentro l'"altra" Chiesa. Quella estranea alla "ritualità pomposa e noiosa che non arriva al cuore della gente". È un lungo viaggio tra i preti che interpretano la diffusione della Parola in modo combattivo perché "il Vangelo è combattimento, è sfida agli stereotipi, ai luoghi comuni, alle convenienze". Alla paura. Preti come monsignor Giancarlo Bregantini, che nel ruolo di vescovo di Locri è stato il faro di quanti si battono contro la 'ndrangheta. Come don Gino Rigoldi, il cappellano del "Beccaria" che da tanti anni cerca di aiutare ragazzi venuti su un po' storti. Come padre Mario Golesano, che è andato nel quartiere di Brancaccio a cercare di riempire il vuoto lasciato da don Pino Puglisi, ammazzato da un sicario al quale regalò il suo ultimo sorriso. E don Andrea Gallo, "gran cardinale della Basilica del Marciapiede", convinto come Fabrizio De André che "dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori" e dunque deciso a portare il Vangelo tra i peccatori. Fino a don Oreste Benzi, che se n'è andato per un infarto nel novembre 2007 dopo avere speso tutte le sue notti a offrire una via d'uscita a migliaia di "Maddalene" che si vendevano nelle strade. Preti spesso scomodi. "Pretacci". Come il capostipite al quale un po' tutti dicono di richiamarsi: don Lorenzo Milani. Il parroco di Barbiana che incitava i pastori di anime a non aver timore di "star sui coglioni a tutti come sono stati i profeti innanzi e dopo Cristo". Candido Cannavò è andato a cercare questi suoi "preti da marciapiede" convinto che per capire davvero l'isolamento della Locride, per esempio, fosse necessario arrivarci con quel trenino che parte da Lamezia Terme e impiega tre ore per centotrenta chilometri. Fosse partito con l'auto blu, non l'avrebbe potuto capire mai. E i suoi "pretacci", potete scommetterci, gli avrebbero chiuso la porta in faccia.

domenica 14 dicembre 2008

De Magistris: facciamo il punto della situazione

Da l'Unità, 4 dicembre 2008
Dice bene il presidente Napolitano sul verminaio campano: occorre “forte capacità di autocritica e autoriflessione nel Mezzogiorno sull’impoverimento culturale e morale della politica”. Ora però, visto che l’autocritica non può ridursi a un “tua culpa, tua maxima culpa” battuto sul petto altrui, s’impone qualche parola sul Csm. Il Csm che, sotto la sua presidenza, ha cacciato in malo modo da Catanzaro un pm perbene come Luigi De Magistris che, pur con possibili e rimediabili errori, aveva scoperchiato altri letamai politico-affaristici in Calabria e Lucania. Il Csm che ha espulso a pedate da Milano una gip onesta come Clementina Forleo, colpevole di aver difeso De Magistris e sventato le scalate illegali a Bnl, Antonveneta ed Rcs facendo i nomi dei politici di destra e sinistra che proteggevano la Banda Furbetti. De Magistris e Forleo han dovuto emigrare a Napoli e a Cremona per “incompatibilità ambientale”. E mai formula si rivelò più azzeccata: per fortuna abbiamo ancora magistrati galantuomini (sempre più rari), dunque incompatibili con certi ambienti putridi. Ora, con il blitz della Procura di Salerno al palazzo di giustizia di Catanzaro per stanare i persecutori di De Magistris, comincia ad affiorare la trama che portò all’incredibile scippo delle sue indagini più scottanti. Una trama illustrata un anno fa dai pm salernitani al Csm. Che però finse di non sentire e procedette come un caterpiller contro i due reprobi. Ora urge una “forte capacità di autocritica” del Csm. E’ già tardi per cacciare da Catanzaro i magistrati inquisiti, reintegrarvi De Magistris e riabilitare la Forleo. Ma non è mai troppo tardi.

Mitica Luciana!!!!!!

USA-Italia visti da Travaglio

martedì 18 novembre 2008

Quelli della Diaz: le verità negate. La notte nera della democrazia

di Giuseppe D’Avanzo

da Repubblica, 10 novembre 2008

Uno stato che vessa e maltratta le persone private della libertà non è uno Stato democratico. Una polizia che usa la forza non per impedire reati, ma per commetterne, non può essere considerata “forza dell’ordine”. Fatti di questo genere distruggono la credibilità delle istituzioni più di tanti insuccessi dei poteri pubblici”. Valerio Onida, giudice emerito della Corte Costituzionale. Sono parole che bisogna tenere a mente ora che il processo per le violenze della polizia nella scuola “Diaz”, durante i giorni del G8 di Genova, è prossimo alla sentenza.

Il 21 luglio del 2001 è il giorno più tragico del G8 di Genova. È morto Carlo Giuliani in piazza Alimonda in una città distrutta dai black bloc ? che riescono inspiegabilmente a colpire indisturbati e a dileguarsi senza patemi. Per tutto il giorno, Genova è insanguinata dai pestaggi della polizia, dei carabinieri, dei “gruppi scelti” della guardia di finanza contro cittadini inermi, donne, ragazzi, anche anziani, spesso con le braccia alzate verso il cielo e sulla bocca un sorriso.

Ora, più o meno, è mezzanotte. Mark Covell, 33 anni, inglese, giornalista di Indymedia.uk, ozia davanti al cancello della scuola Diaz, diventato un dormitorio dopo che i campeggi sono stati abbandonati per la pioggia. Covell si accorge che la polizia sta “chiudendo” la strada. Avverte subito il pericolo. Estrae l’accredito stampa, lo mostra, lo agita. I poliziotti, che lo raggiungono per primi (sono della Celere, del VII nucleo antisommossa del Reparto Mobile di Roma), lo colpiscono con i “tonfa” o “telescopic baton”, più che un manganello un’arma tradizionale delle arti marziali: rigido e non di caucciù, a forma di croce: “può uccidere”, se ne vanta chi lo usa. Colpiscono Mark senza motivo. Come, senza ragione, un altro poliziotto con lo scudo lo schiaccia ? subito dopo ? contro il cancello mentre un altro, come un indemoniato, lo picchia alle costole. Gli gridano in inglese: “You are black bloc, we kill black bloc” (“Tu sei un black, noi ti uccidiamo”).

Covell cade finalmente a terra. E’ semisvenuto, in posizione fetale. Potrebbe bastare anche se fosse un incubo, ma per Mark il calvario non è ancora finito. Tutti i “celerini” che corrono verso la scuola lo colpiscono a terra con calci (il pestaggio di Covell è ripreso da una videocamera). Covell rimarrà, esanime, circondato dall’indifferenza, in quell’angolo di via Cesare Battisti, al quartiere di Albaro, per oltre venti minuti. Ha una grave emorragia interna, un polmone perforato, il polso spezzato, otto fratture alle costole, dieci denti in meno. Quando si sveglia in ospedale, viene arrestato per resistenza aggravata a pubblico ufficiale, concorso in detenzione di arma da guerra e associazione a delinquere. (E’ ancora aperta l’indagine per individuare i poliziotti che lo hanno quasi ucciso. L’accusa: tentato omicidio).

Distruggere. Annientare. E’ con questo obiettivo che, dopo aver abbattuto con un blindato Magnum il cancello, le prime tre squadre del Reparto Mobile di Roma (trenta uomini) invadono, a testuggine, il pianoterra della scuola. Arnaldo Cestaro, “un vecchietto”, è sulla destra dell’ingresso. Viene travolto. Lo gettano contro il muro. Lo picchiano con i “tonfa”. Gli spezzano un braccio e una gamba. Ora ci sono urla e baccano. Nella palestra, ai piani superiori ragazzi e ragazze - anche chi si è già infilato nel sacco al pelo per dormire - comprendono che cosa sta accadendo.

Tutti raccolgono le loro cose, il bagaglio leggero che si portano dietro da giorni. Si sistemano con le spalle al muro; chi in ginocchio; chi in piedi; tutti con le braccia alzate in segno di resa; chi ha voglia di un’ultima “provocazione” mostra al più indice e medio a V. Daniel Mc Quillan, quando vede le divise, si alza in piedi e dice: “Noi siamo pacifici, niente violenza”. “Come se fossero un branco di cani impazziti, sono su di lui in un istante e lo colpiscono, lo colpiscono, lo colpiscono?”, dicono i testimoni. La furia dei celerini si scatena contro chiunque e dovunque, irragionevolmente, con furore (si vede uno che mena colpi con una specie di mazza da baseball).

Melanie Jonach racconterà di essere svenuta subito al primo colpo che la raggiunge alla testa. Gli altri, che vedono la bastonatura inflittale, ricordano i suoi occhi aperti ma incrociati, le contrazioni spastiche del corpo. Anche in queste condizioni, continuano a picchiarla e a prenderla a calci. Un ultimo calcio sbatte la sua testa contro un armadio: ora è “aperta” come un melone. Il comandante del VII nucleo, a quel punto, grida “Basta!”. Raggiunge la ragazza. “La tocca con la punta dello stivale. Melanie non dà segni di vita e quello ordina che venga chiamata un’autoambulanza”. (Melanie Jonach ci arriverà in codice rosso con una frattura cranica nella regione temporale sinistra).

Nicola Doherty ancora piange in aula mentre racconta: “Hanno cominciato a picchiarci immediatamente. C’era gente che piangeva e implorava i poliziotti di fermarsi. Anch’io piangevo e chiedevo che la smettessero. Uno mi è venuto vicino e con fare dolce mi ha detto “Poverina!” e mi ha colpito ancora. Sembrava che ci odiassero. Ho visto un poliziotto con un coltello in mano, bloccava le ragazze, i ragazzi e tagliava una ciocca di capelli con il coltello”. Voleva il suo personale trofeo di guerra. Altri continuano a gridare, dopo aver picchiato duro: “Dì, che sei una merda”. Mentre colpiscono gridano: “Frocio!”, “Comunista!”, “Volevate scherzare con la polizia?”, “Nessuno sa che siamo qui e ora vi ammazziamo tutti!”.

Lena Zulkhe, colpita alle spalle e alla testa, cade subito. Le danno calci alla schiena, alle gambe, tra le gambe. “Mentre picchiavano, ho avuto la sensazione che si divertissero”. La trascinano per le scale afferrandola per i capelli e tenendola a faccia in giù. Continuano a picchiarla mentre cade. La rovesciano quasi di peso verso il pianoterra. “Non vedevo niente, soltanto macchie nere. Credo di essere per un attimo svenuta. Ricordo soltanto - ma quanto tempo era passato? - che sono stata gettata su altre due persone, non si sono mossi e io gli ho chiesto se erano vivi. Non hanno risposto, sono stata sdraiata sopra di loro e non riuscivo a muovermi e mi sono accorta che avevo sangue sulla faccia, il braccio destro era inclinato e non riuscivo a muoverlo mentre il sinistro si muoveva ma non ero più in grado di controllarlo. Avevo tantissima paura e pensavo che sicuramente mi avrebbero ammazzata”.

Dei 93 ospiti della “Diaz” arrestati, 82 sono feriti, 63 ricoverati ospedale (tre, le prognosi riservate), 20 subiscono fratture ossee (alle mani e alle costole soprattutto, e poi alla mandibola, agli zigomi, al setto nasale, al cranio).

Che cosa ha provocato questa violenza rabbiosa e omicida? Come è stata possibile pensarla, organizzarla, realizzarla. Il 22 luglio, il portavoce del capo della polizia convoca una conferenza stampa e distribuisce un breve comunicato che vale la pena di ricordare per intero: “Anche a seguito di violenze commesse contro pattuglie della Polizia di Stato nella serata di ieri in via Cesare Battisti, si è deciso, previa informazione all’autorità giudiziaria, di procedere a perquisizione della scuola Diaz che ospitava numerosi giovani tra i quali quelli che avevano bersagliato le pattuglie con lancio di bottiglie e pietre. Nella scuola Diaz sono stati trovati 92 giovani, in gran parte di nazionalità straniera, dei quali 61 con evidenti e pregresse contusioni e ferite. In vari locali dello stabile sono stati sequestrati armi, oggetti da offesa ed altro materiale che ricollegano il gruppo dei giovani in questione ai disordini e alle violenze scatenate dai Black Bloc a Genova nei giorni 20 e 21. Tutti i 92 giovani sono stati tratti in arresto per associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e saccheggio e detenzione di bottiglie molotov. All’atto dell’irruzione uno degli occupanti ha colpito con un coltello un agente di Polizia che non ha riportato lesioni perché protetto da un corpetto. Tutti i feriti sono stati condotti per le cure in ospedali cittadini”. Il portavoce mostra anche le due molotov che sarebbero state trovate nell’ingresso della scuola, “nella disponibilità degli occupanti”.

Il processo di Genova ha dimostrato ragionevolmente (e spesso con la qualità della certezza) che nessuna delle circostanze descritte dal portavoce del capo della polizia (capo della polizia era all’epoca Gianni De Gennaro) corrisponde al vero. Quelle accuse sono false, quelle ragioni sono inventate di sana pianta. Si dice che l’assalto (la “perquisizione”) fu organizzato dopo che un corteo di auto e blindati della polizia era stato, poco prima della mezzanotte, assalito in via Cesare Battisti con pietre, bottiglie e bastoni. Il processo ha dimostrato che non c’è stata nessuna pattuglia aggredita. Si dice che gli ospiti della Diaz fossero già feriti, quindi coinvolti negli scontri in città.

Nessuno dei 93 arrestati era ferito prima di essere bastonato dai “celerini”. Poliziotti, comandanti, dirigenti hanno riferito che, mentre entravano nella scuola, c’è stata contro di loro una sassaiola e addirittura il lancio di un maglio spaccapietre. I filmati hanno dimostrato che non fu lanciata alcun sasso e nessun maglio. Il comandante del Reparto Mobile di Roma ha scritto in un verbale che ci fu una vigorosa resistenza da parte di “alcuni degli occupanti, armati di spranghe, bastoni e quant’altro”. Assicura che nella scuola (entra tra i primi) sono stati “abbandonati a terra, numerosi e vari attrezzi atti ad offendere, tipo bastoni, catene e anche un grosso maglio”.

Nella scuola non c’è stata alcuna colluttazione, nessuna resistenza, soltanto un pestaggio. Nessuno degli occupanti ha tentato di uccidere con una coltellata il poliziotto Massimo Nucera. Due perizie dei carabinieri del Ris hanno smentito che lo sbrego nel suo corpetto possa essere il frutto di una coltellata. Nella scuola non c’erano molotov. Come ha testimoniato il vicequestore che le ha sequestrate, quelle due molotov furono ritrovate da lui non nella scuola la notte del 22 luglio, ma sul lungomare di Corso Italia nel pomeriggio del giorno precedente. La prova falsa, manipolata, è stata inspiegabilmente distrutta, durante il processo, nella questura di Genova.

In settimana il tribunale deciderà delle responsabilità personali dei 29 imputati (poliziotti, dirigenti, comandanti, alti funzionari della polizia di Stato) accusati di falso ideologico, abuso di ufficio, arresto illegale e calunnia. Quel che qui conta dire è che la responsabilità non penale, ma tecnico-politica di chi, impotente a fronteggiare i black bloc, si è abbandonato (per vendetta? per frustrazione? con quali ordini e di chi?) a pestaggi ingiustificati e indiscriminati, non può e non deve essere liquidata da questa sentenza. Centinaia di agenti, sottufficiali, ufficiali, dirigenti di polizia, funzionari del Dipartimento di pubblica sicurezza hanno mentito durante le indagini e al processo.

E chi non ha mentito, ha negato, taciuto o dissimulato quel che ha visto e saputo. Dell’assalto alla “Diaz” non inquieta soltanto il massacro di 93 cittadini inermi diventati in una notte “criminali” a cui non si riconosce alcuna garanzia e diritto. Quel che angoscia è anche questo silenzio arrogante, l’omertà indecorosa che manipola prove; costruisce a tavolino colpevoli; nasconde le responsabilità; sfida, senza alcuna lealtà istituzionale, il potere destinato ad accertare i fatti. Le apprensioni di sette anni raddoppiano ora che, decreto dopo decreto, si fa avanti un “diritto di polizia”. Il Paese ha bisogno di sapere se il giuramento alla Costituzione delle forze dell’ordine non sia una impudente finzione. Perché quel che è accaduto a Mark Covell e ai suoi 92 occasionali compagni di sventura rende chiaro, più di qualsiasi riflessione, come uno Stato che si presenta nelle vesti di sbirro e carnefice fa assai presto a diventare uno Stato criminale quando il dissidente, il non conforme, l’altro diventa un “nemico” da annientare.

lunedì 17 novembre 2008

Le panzanate hanno le gambe corte...

E' una tattica vecchia come il cucu cercare di screditare l'avversario cercando di ravanare nel suo passato per trovare qualcosa di peccaminoso da raccontare poi come scoop clamoroso.
Si cerca tra i racconti dei compagni dell'asilo per cercare di capire se il malcapitato abbia mai tirato i capelli all'amichetta o rubato una caramella per dipingerlo poi come un facinoroso violento (che non può magari più schierarsi con i pacifisti per tutta la vita) o schifoso ladro (che non può più dir nulla su chi ladro lo è veramente).
E' superfluo dire che meccanismi di questo tipo inceppano al minimo esercizio di buon senso che qualunque uomo dotato di un minimo di cervello può decidere di attivare.
Passi anche che le storielle vengano costruite con una tale arguzia e malizia da intrappolare i più tonti. Può succedere.
Ma se le storie non solo non sono realistiche, ma sono proprio un falso clamoroso, chi ci cade non lo fa per assenza di cervello, ma per ragioni ideologiche, di fronte alle quali la mia posizione è di totale avversità.
Ora, sono forse il primo a cadere nella trappola dell'ideologia? Bene, fatemelo notare e cercherò di correggermi!
Questo blog non è contro le persone, è contro le ingiustizie e tutto ciò che le circonda.
Qualcuno ha cercato di screditare Travaglio con una messa in scena delle più ridicole, dicendo che ha passato una vacanza insieme ad un mafioso...

Rimando direttamente alla pagina del blog di travaglio dove Marcolino spiega come sono andate le cose mettendo pure le foto degli assegni e degli estratti conti di quella vacanza...

sabato 15 novembre 2008

Dittatura argentina

Genova 2001: carnefici assolti


E' avvilente sentire le notizie che riguardano i fatti di Genova: i carnefici sono stati assolti, nonostante le prove schiaccianti che li vedevano ultra colpevoli.
Mi sembra di poter dire (ripetere) che il nostro paese sia in una situazione molto grave e molto seria dal punta di vista della giustizia e della democrazia.

http://www.repubblica.it/2008/07/sezioni/cronaca/g8-genova-4/giudizio-diaz/giudizio-diaz.html

Ripropongo testimonianze varie:
1. TESTIMONIANZE DI GIORNALISTI ITALIANI E DI VARI PAESI PESTATI A SANGUE (ALCUNI FINITI IN COMA). Ma per la giustizia italiana è tutto lecito
2. Castelli: "Non ho visto nessuna violenza" (cieco o... stronzo?)
3. un giovane

sabato 25 ottobre 2008

Notizie da Travaglio (ciò che il TG1 non ci dice)

Il TG secondo Travaglio: niente scoop o gossip, ma le cose importanti da sapere. Partendo dalle fesserie che si dicono in merito alla sua presunta condanna.

lunedì 20 ottobre 2008

dal blog di Grillo (MARZO 2008)



Dal blog di Beppe Grillo
http://www.beppegrillo.it/2008/03/2008_1929/index.html

Le previsioni sulla crisi del mercato immobiliare negli Stati Uniti sono da infarto. Vi ricordate i subprime, i mutui concessi a chiunque senza verificarne il reddito e trasformati in fondi di investimento piazzati a destra e a manca? La banca vendeva il mutuo e anche il fondo con il mutuo dentro. Geniale. Alcune banche, come la Northern Rock, sono saltate per aria e il valore del loro titolo azionario è stato quasi azzerato.
Ben Bernanke, il capo della Federal Reserve, aveva previsto, nel luglio 2007, il danno al sistema finanziario americano in 100 miliardi di dollari. La Goldman Sachs ha poi rivisto la stima a 500 miliardi dollari. Nouriel Roubini della New York University Stern School of Business ha di recente alzato la posta fino a una perdita di 3.000 miliardi di dollari. Una cifra pari al 20% del PIL degli Stati Uniti. Sempre Roubini valuta un effetto collaterale sulla Borsa statunitense in una perdita di 5.600 miliardi di dollari.
Il pessimismo di Roubini, o forse realismo, si spinge fino a prevedere una perdita di valore complessiva equivalente all’intero PIL annuo degli Stati Uniti. Il valore delle case è diminuito di almeno il 10% dai massimi e si ipotizza una perdita di un ulteriore 20%.
Chi sta pagando un mutuo spesso consegna le chiavi di casa alla banca quando si accorge che l’ipoteca sull’immobile è superiore al valore di mercato. La banca deve quindi svalutare il suo patrimonio immobiliare. Per rientrare dalle perdite (voragini) finanziarie chiede il rientro dei crediti a rischio. E vende i titoli più esposti.
Scende il valore delle banche, dei titoli, delle case e, all’improvviso, nessuno fa più prestiti. Il valore del dollaro crolla, 63.000 posti di lavoro in meno in febbraio 2008. In questi casi si parla sempre di un nuovo 1929, dato lo scenario non è escluso che possa succedere. Gli economisti ipotizzano la più grande crisi finanziaria dagli anni ’30.
L’italiano medio con il suo stipendio tra i più bassi d’Europa, le tasse tra le più alte del mondo e servizi pubblici indecenti può credersi al riparo da questo tsunami finanziario. Peggio di così gli sembra difficile. Qualche piccola precauzione è comunque meglio prenderla per non rovinarsi del tutto. Per chi non ha soldi, non fare nessun debito. Per chi ne ha ancora qualcuno non investire in fondi e rimandare l’acquisto della casa.
Verso la catastrofe con ottimismo.

martedì 14 ottobre 2008

Orrori di un paese dilaniato dal dio denaro

da Amnesty International

"Morte per discriminazione": nuovo rapporto di Amnesty International sulla pena capitale in Arabia Saudita
CS133: 14/10/2008

Secondo un nuovo rapporto diffuso oggi da Amnesty International, le autorità dell'Arabia Saudita mettono a morte, in media, più di due persone a settimana. Quasi la metà delle esecuzioni (e si tratta di una percentuale sproporzionata in rapporto alla popolazione locale) riguarda cittadini stranieri provenienti da paesi poveri e in via di sviluppo.

"Avevamo auspicato che le iniziative in materia di diritti umani che il governo saudita si era vantato di avere introdotto negli ultimi anni, avrebbero potuto mettere fine a tutto questo o almeno determinare una significativa riduzione nell'uso della pena di morte. Invece, abbiamo assistito a un forte aumento delle esecuzioni, che hanno luogo al termine di processi segreti e ampiamente iniqui. Una moratoria sulle esecuzioni è più urgente che mai" - ha dichiarato Malcolm Smart, Direttore del Programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International.

Nel 2007 le esecuzioni sono state almeno 158, contro le 39 registrate da Amnesty International l'anno prima. Per quanto riguarda il 2008, al 31 agosto il totale era arrivato già a 71. Si teme una nuova ondata di esecuzioni nelle prossime settimane, dopo la fine del mese sacro del Ramadan.

"Il continuo ricorso alla pena di morte da parte delle autorità saudite, si pone in contrasto con la crescente tendenza mondiale verso l'abolizione" - ha proseguito Smart. "Per di più, la pena di morte in Arabia Saudita è applicata in modo sproporzionato e discriminatorio nei confronti di persone povere, tanto lavoratori stranieri quanto cittadini sauditi che non hanno relazioni familiari o altre conoscenze che potrebbero salvarli dall'esecuzione".

Troppo spesso gli imputati, soprattutto lavoratori migranti provenienti da paesi in via di sviluppo dell'Africa e dell'Asia, non hanno un avvocato e non sono in grado di seguire i procedimenti giudiziari che si svolgono in lingua araba. Sia loro che i sauditi messi a morte non hanno denaro né rapporti con persone influenti che potrebbero intervenire in loro favore, come autorità di governo e capi tribù, circostanze entrambe decisive per ottenere la grazia.

"Le procedure al termine delle quali viene inflitta una condanna a morte sono assai dure, quasi completamente segrete e ampiamente inique. I giudici, tutti uomini, hanno un vasto potere discrezionale e possono emettere una sentenza capitale anche per reati non violenti definiti in modo del tutto generico nelle leggi. Alcuni lavoratori migranti sono rimasti all'oscuro della propria condanna a morte fino alla mattina stessa dell'esecuzione" - ha sottolineato Smart.

Le esecuzioni avvengono generalmente in pubblico, mediante decapitazione. In caso di rapina con omicidio della vittima, il corpo del condannato viene crocifisso dopo l'esecuzione.

L'Arabia Saudita è uno dei pochi paesi del mondo a mantenere un alto tasso di esecuzione di donne e a mettere a morte, in violazione del diritto internazionale, persone minorenni al momento del reato.

"È davvero giunto il momento che l'Arabia Saudita affronti il problema della pena di morte e rispetti gli obblighi derivanti dal diritto internazionale. Come membro eletto del Consiglio Onu dei diritti umani, il governo deve fare marcia indietro e rendere conformi agli standard internazionali le proprie procedure legali e giudiziarie, vietare la pena di morte per i minorenni, garantire processi equi, prendere misure per porre fine alla discriminazione e ridimensionare i poteri discrezionali dei giudici nell'uso di questa pena crudele, inumana e degradante" - ha concluso Smart.

FINE DEL COMUNICATO Roma, 14 ottobre 2008

Il rapporto in inglese Affront to justice: death penalty in Saudi Arabia è disponibile on line e presso l'Ufficio stampa di Amnesty International Italia.

Per ulteriori informazioni, approfondimenti e interviste:
Amnesty International Italia - Ufficio stampa
Tel. 06 4490224 - cell. 348-6974361, e-mail: press@amnesty.it

sabato 11 ottobre 2008

Fratello metallo



In un'intervista apparsa su Venerdì de La Repubblica di agosto, introvabile sul web, Fratello Metallo raccontava di come preferisse relazionarsi con i giovani dei concerti metal, da cui traeva ampia considerazione e rispetto, piuttosto che con i ragazzi tutti casa e chiesa che non lo cagavano di striscio.
Questo è il concetto di cui mi ricordo, chiaramente espresso con parole più auliche in quell'occasione.
Sul web si trova quest'intervista, che riporto qui sotto. Pace a voi fratelli cari, che leggete!


Buongiorno, padre Cesare.
«Pace e bene, figlio mio».

Perché si fa chiamare Fratello Metallo?
«È il mio nome d’arte».

E da quando un frate cappuccino ha il nome d’arte?
«Lo uso nei miei concerti di musica heavy metal».

Un sant’uomo col saio e la barba bianca, amante dell’heavy metal?
«Questa musica mi serve per diffondere i temi della Chiesa in chiave laica: una scelta non in qualità di "predicatore", ma come semplice persona».

Leggo dal vocabolario: «L’heavy metal
(“metallo pesante“) è caratterizzato da ritmi aggressivi. Le tematiche
musicali sono definite come oniriche, rabbiose, violente o tetre».

«Non
è così, il metal è solo buona musica e voglia di socializzare, magari con l’aiuto di qualche bottiglia di birra. Una certa coreografia serve solo ad animare lo show».

Per questo usa catene, borchie e saluta il pubblico facendo le corna?
«Il gesto delle corna è un simbolo d’amore».

In che senso?
«Le tre dita sollevate (pollice, indice e mignolo) stanno per le parole: I love you».

C’è invece chi le interpreta addirittura come un messaggio satanico.
«L’heavy
metal è agli antipodi rispetto al satanismo. Tra centinaia di gruppi,
esisteranno al massimo due o tre band che si ispirano al demonio».

Certo è che i metallari non hanno un aspetto granché rassicurante...
«Figlio mio, è tutta scena. In verità sono persone dolcissime».

Ne parla come se fossero dei chierichetti.
«Una
volta ho visto un metallaro di quelli che sembravano dei veri duri telefonare a casa e dire: "Mammina, questa sera arriverò un po’ più tardi... "».

Che tenero. È stato così che ha deciso di diventare uno di loro?
«La folgorazione l’ho avuto al concerto milanese dei Metallica, ero tra il
pubblico al Forum di Assago e i giovani si avvicinavano chiedendomi: "Ma sei un frate vero? Cosa ci fai qui?"».

Invece che sulla via di Damasco, è stato folgorato sulla via del Forum di Assago?
«La mia opera di evangelizzazione l’ho sempre fatta per strada a contatto con la gente. È l’unico modo per diffondere la parola di Dio, portando conforto a chi ne ha bisogno».

Ma lei si trova più a suo agio col Vangelo o i distorsori acustici?
«Con entrambi».

Quanti concerti live fa ogni anno?
«Non meno di cento».

Quanti cd ha inciso finora?
«Sedici».

Una media da star. L’ultimo come si intitola?
«Misteri. Lo presenterò il 30 maggio a Milano, la città dove vivo».

Come definirebbe la sua musica?
«"Metallo",
condita con un pizzico di armonioso, melodico rock; ciò potrebbe far
chiamare questo genere con un nome nuovo: "metrock"».

Che argomenti tratta nelle canzoni?
«Parlo di famiglia, donna, sesso, Dio, droga... E non manca mai un brano in chiave di fede».

Già la fede, com’è maturata la sua vocazione religiosa?
«Nel 1975 entrai in convento dei Cappuccini. Nel 1980, da diacono, partii per una missione in Costa d’Avorio. Tre anni dopo venni ordinato
sacerdote. Ora vivo nel Convento di Musocco a Milano».



Fin qui il «matrimonio» col Signore. E quello con la musica?
«Da
assistente spirituale dei tranvieri di Milano, cominciai a scrivere e
cantare le mie prime canzoni: il brano di esordio si chiamava La danza
del tram».

Titolo e testo non propriamente metal, mi pare.
«No, ma la scelta di campo era ormai fatta: la danza, la musica e il canto
usati come strumenti per comunicare contenuti e valori».

Le alte sfere ecclesiastiche l’hanno mai contrastata?
«Mai».

Prima di incontrare Gesù e la musica, cosa faceva?
«Sono
nato a Offanengo (Cremona) nel 1946. Ho fatto l’operaio e il
commerciante. Poi il servizio militare nei Bersaglieri. Dio l’ho
incontrato mentre portavo soccorso agli alluvionati del Friuli.
Rischiai di morire annegato, fui salvato per miracolo. E allora capii
una cosa».

Cosa?
«Che la vita è un viaggio e l’amore è il carburante essenziale».



Saggezza che ha sete di giustizia



La meravigliosa trasmissione televisiva Mediterraneo ha presentato oggi un personaggio molto, molto interessante, Bunker Roy e la sua scuola, "Scuola dei piedi nudi" che da 35 anni si impegna a risollevare le sorti dei poveri di tutto il mondo. Un alternativa? No, spiega Roy, è l'unica strada praticabile per uno sviluppo sostenibile. Donne analfabete ma ripiene di saggezza diventano "ingegneri solari" in 6 mesi, ci spiega: la ricchezza è dentro ognuno di noi, non occorre cercarla all'esterno.
Un libro, "Raggiungere l'ultimo uomo", ne racconta l'esperienza.


Sintesi


www.bol.it

"Cosa si intende per sviluppo? Agli occhi della popolazione delle campagne, dei funzionari del governo indiano e di gran parte degli aiuti umanitari internazionali lo sviluppo è la presenza fisica di nuovi edifici. L'edificio di una scuola significa istruzione, il dispensario assistenza medica e la banca prestiti. Ma gli edifici in sé possono fare ben poco se un insegnante è assente per giorni e la frequenza degli alunni è molto bassa, se il dottore o l'infermiera non ci sono o mancano le medicine. Sviluppo significa cambiare la vita delle persone, non costruire edifici simbolo. In India gli aiuti del governo e delle grandi organizzazioni internazionali non servono, i milioni di dollari destinati a progetti calati dall'alto hanno prodotto solo una ininterrotta serie di fallimenti e alimentato la corruzione e gli sprechi. I soldi per dare cibo e acqua potabile a tutti ci sarebbero, se solo si desse fiducia ai poveri e alle soluzioni a basso costo trovate da loro".


libreriarizzoli.corriere.it


Nell'India splendente del boom economico, centinaia di milioni di persone non riescono a mangiare due volte al giorno. Analfabeti, oppressi dalla povertà e dalla divisione in caste, vivono in uno stato costante di paura e insicurezza. Da trentacinque anni, la "Scuola dei piedi nudi" di Bunker Roy cerca di migliorare la vita dei contadini insieme a loro, offrendo risultati tangibili: trovare acqua per irrigare la terra, curare le malattie, vedere i propri figli frequentare la scuola. A Tilonia, migliaia di giovani che nessuno avrebbe impiegato sono addestrati a una professione. I criteri per la selezione sono semplici: devono essere poveri e analfabeti. La speranza è che un giorno siano in grado di stare in piedi da soli, guardando al mondo come esseri umani.

martedì 7 ottobre 2008

Sesso in cambio di un lavoro: il 64% ha detto si



(da "Studenti.it")

Anche per i giovani più qualificati entrare nel mondo del lavoro può rivelarsi un'impresa impossibile e così, a volte, si è disposti a scendere a compromessi. Ma a fronte di chi è convinto che tutti abbiano un prezzo c'è anche chi, al contrario, ritiene che si debba salvaguardare la propria dignità a qualunque costo

a cura di Marta Ferrucci 6 Ottobre 2008


Decine di curriculum inviati senza ottenere risposta e stage che non portano a nulla. Nonostante la preparazione di molti giovani il mercato del lavoro sembra inaccessibile. Arriva il senso di sfiducia e, per provocazione o puro bisogno, si può decidere di offrire il proprio corpo in cambio di un contratto a tempo indeterminato: "Mi offro per prestazioni sessuali, in cambio di un posto di lavoro fisso! A persone distinte e abbastanza influenti, sia donne che uomini. Ho 45 anni..." è l'annuncio che un motore di ricerca ha pescato dalla bacheca Kiji di Bergamo. Ma l'offerta non è isolata e mette in evidenza il disagio, le difficoltà e a volte la disperazione di chi cerca di trovare una collocazione nel mondo del lavoro: quante sarebbero le persone veramente disposte a barattare il proprio corpo con un lavoro o un avanzamento di carriera?

Hanno dichiarato di aver ricevuto delle avances in cambio di un lavoro il17% degli utenti che hanno partecipato all'inchiesta di Studenti.it. Di questi l'11% -ovvero il 64% di coloro a cui è stata fatta la proposta- ha accettato lo scambio. Solo il 6% ha rifiutato.

Il 39% non ha mai ricevuto una proposta del genere ma ammette che, se gli fosse stata fatta, avrebbe acconsentito. Il 42%, infine, è categorico e dichiara di non aver mai ricevuto avances in cambio di un lavoro e se anche fosse accaduto non avrebbero accettato.


"Collaboravo con una testata giornalistica e mi piaceva tanto il mio lavoro che svolgevo con grande passione e piacere - racconta Gaia- fino a quando il mio capo dopo varie molestie e richieste ha fatto di tutto per buttarmi fuori, visto che non ho esaudito i suoi desideri personali. Credetemi per me è stato bruttissimo, non tanto per la questione economica ma il disastro psicologico che ne deriva. Oggi è assai difficile trovare un lavoro, figuriamoci poi riuscire a fare ciò che più ci diletta, io avevo trovato la mia dimensione con il giornalismo ma è bastato un capriccio altrui a smontare tutti i miei sogni e le mie capacità. Purtroppo c’è da dire che tra donne non c’è alcuna solidarietà anzi sono sempre di più le donne che sono disposte a tutto per la carriera o anche solo per lavorare e i nostri cari uomini sfruttano in tutto e per tutto il loro potere. Diciamo che si tolgono vari sfizi.Del resto la frase tipica è :”O così o niente, sai quante sarebbero pronte al posto tuo???”. Che dire io sono tanto delusa, perché altro che meritocrazia, oggi non interessa a nessuno che tu sai fare qualcosa, conta altro".job meeting

"Sono rimasta a casa dal lavoro proprio x non aver ceduto" - scrive Francesca- "o meglio, non mi è stato rinnovato il contratto perchè non mi sono concessa al nostro sm, responsabile della selezione e dell'assunzione del personale... Ero davvero brava nel mio lavoro (commessa),mai un errore in cassa,negozio pulito,clienti soddisfatti e io con la certezza di avere dei soldi per l'università... un giorno, con una battutta molto chiara mi ha proposto di concedermi ma io,rabbiosa,gli risposi che non mi andavano certe cose..alla fine,le mie colleghe hanno avuto il rinnovo (e so per certo che hanno avuto rapporti col cAPO) e io invece sn rimasta a casa.non mi pento di ciò che ho fatto,mi fanno schifo e donne che si concedono per un posto:non esiste nessun tipo di problema che lo consenta! Io avrei potuto, dato che ho molti problemi finanziari e deo pagarmi da sola l'uni...ma non l'ho fatto e ora anche se arranco e a volte son giù non me ne pento..spero solo di che il destino mi dia ragione..."

Karen: "L'aeroporto nella mia città ad esempio è una casta chiusa. Impossibile accedere se non hai amicizie fortissime in politica, a me è stato proposto un caffè e un paio di complimenti, ma mi si offriva solo un lavoretto di promoter all'interno del terminale, con la prospettiva che poi si fanno amicizie e si può "salire di grado". Pazzesco. Ovviamente non ho voluto saperne nulla, continuo a sperare che in futur cambi qualcosa".

Ma c'è anche una realtà opposta: "Purtroppo vi è una realtà che non viene descritta, quella all'inverso dove sono le candidate al posto di lavoro che si fanno avanti anche in modo molto esplicito che sarebbero disposte a donare gli organi e quindi darmela pur di lavorare", scrive un anonimo datore di lavoro.

Tra gli intervistati c'è chi pensa che sia un problema morale, un problema di valori, c'è chi è convinto che tutti abbiano un prezzo e chi, al contrario, ritiene che si debba salvaguardare la propria dignità a qualunque costo.
" Tutto è commensurato e commensurabile e quindi acquistabile" - scrive Carlo- "Mi chiedo se davvero la prostituzione dei corpi, delle idee e dei valori abbia raggiunto un punto di non ritorno ovvero che sia normale vendersi e vendere anche l'anima come se fosse una cosa normale. Ma noi siamo davvero in vendita? Ci valutiamo a peso a cosa? E con gli sconti come la mettiamo?"

lunedì 15 settembre 2008

Lidl? Ma anche no!


Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

«Non cuciamo i palloni e siamo tutti maggiorenni, ma sopportiamo soprusi e condizioni di lavoro non certo degne di un paese che ha la pretesa di far parte dell'Unione europea: il monte ore mensile, 16 ore al giorno per 28 giorni, è di 448 ore, per una base oraria di 3,48 euro». Sì, proprio 16 ore di lavoro al giorno: si conclude così la lettera di Emanuele D, un giovane quadro della Lidl, pubblicata nel luglio scorso sul blog di Beppe Grillo ( beppegrillo.it) e che ha avuto una straordinaria «fortuna». Ben 2907 risposte alla data di ieri: tantissimi colleghi della Lidl, delle grandi catene di distribuzione e non solo, che condividono la stessa condizione di super-lavoro e precarietà. L' hard discountgenere Wal Mart - prezzi stracciati e lavoro ai ritmi della schiavitù - ha ormai un solidissimo esponente europeo: si chiama Lidl, è figlio di una potente famiglia del land tedesco del Baden Wuettenberg, gli Schwarz, e si è diffuso a macchia d'olio in venti paesi europei. Tanto che, allo stato attuale, il colosso dei supermercati low costconta 100 mila dipendenti e 6 mila punti vendita nel continente, dal Portogallo alla Polonia, dalla Finlandia all'Italia. Alla cassa stanno soprattutto le donne - con contratti part time e una retribuzione media mensile di 600 euro al mese. Per i posti di comando, i quadri e i dirigenti, la Lidl seleziona principalmente uomini, perlopiù laureati, che attraverso un durissimo training di 10 mesi vengono portati ad accettare la «filosofia del terrore»: il sottoposto lavora solo se lo maltratti, devi assicurarti che non rubi, e se protesta o si iscrive al sindacato devi fare di tutto per metterlo fuori.
Sarebbe però erroneo descrivere i quadri come «privilegiati»: è vero che guadagnano dai 1300 euro in su e hanno l'auto aziendale, ma sono proprio loro a essere «triturati» per primi dal sistema Lidl. Lavorano il doppio delle ore da contratto (70-80 ore settimanali, senza percepire per questo un doppio salario), sono costretti a scaricare i camion, fare le pulizie e sostituire le cassiere quando manca il personale. Contro gli abusi del «sistema Lidl», ormai collaudato e uniforme in tutta Europa, si è attivato il sindacato tedesco Ver.di, lanciando la «campagna internazionale Lidl». Nel 2004 è stato pubblicato il primo «Libro nero», con le storie dei lavoratori tedeschi. Quest'anno è uscito il «Libro nero europeo», con le vicende dei 20 paesi in cui l' hard discountsi è diffuso, Italia compresa. Il manifestosi è recato a Berlino per raccontare la campagna Lidl, e nei prossimi numeri di questa inchiesta-reportage riferiremo dei lavoratori europei e della strategia sindacale dei Ver.di. Per questa prima puntata, abbiamo scelto di dialogare con i quadri e le cassiere italiane.
«Mangio, dormo o mi lavo?»
Prima di entrare in una filiale della Lidl, e parlare con i lavoratori, dobbiamo riferire dei recenti controlli avviati dall'ispettorato del lavoro su alcuni punti vendita: in particolare, gli ispettori si sono recati negli hard discountdell'area Piemonte-Liguria, dove hanno riscontrato - per quel che ci è dato sapere da alcune testimonianze dei lavoratori - irregolarità sulle liste presenza. Un punto non affatto secondario o di rilevanza solo formale: la Lidl, infatti, risparmia proprio sulla «presenza» dei lavoratori nei punti vendita. Nel senso che li mantiene quasi sempre sotto organico, obbligando i dipendenti di livello più alto e i quadri intermedi (capifiliale e capisettore) a lavorare molte più ore di quelle retribuite. Anche sulle cassiere si registrano casi di straordinari non retribuiti, ma i loro orari sono in genere più rigidi e gli abusi non sono abnormi come nel caso dei superiori. Piuttosto, le addette alla cassa subiscono un altro tipo di sopruso: i turni, che per il contratto del commercio dovrebbero essere fissi, vengono cambiati ogni due settimane o addirittura una; spesso anche di giorno in giorno. Così non puoi mai organizzarti la vita fuori dal negozio, né trovarti una seconda occupazione, devi essere sempre a disposizione: una sorta di «lavoro a chiamata».
La prima testimonianza ci viene da uno dei gradini più alti nella piramide Lidl, un quadro. Usiamo un nome di fantasia, Luca, per tutelarlo: ha lavorato 18 mesi per la Lidl, è stato licenziato e adesso è in causa per il reintegro. E' entrato nel gennaio 2005 come «caposettore» dopo una serie di colloqui, per occuparsi di 4 filiali nell'area torinese (ma a un certo punto ne ha avute anche 7 da seguire). Il suo ruolo avrebbe dovuto consistere nell'organizzare e monitorare il lavoro in tutte le filiali: «Al colloquio mi hanno detto che avrei lavorato 38 ore a settimana, ovvero il full timedel contratto commercio. Ma subito misero le mani avanti: per il tuo ruolo di responsabilità - dissero - ti chiediamo comunque una "certa elasticità"». Mai Luca avrebbe potuto immaginare che quella «certa elasticità» si sarebbe trasformata in una totale dedizione (fisica e mentale) alla Lidl: orario di lavoro ininterrotto dalle 6,30 del mattino alle 22,30. Quasi sempre dal lunedì al sabato (invece dei cinque giorni da contratto), spesso anche la domenica, giornata dedicata all'inventario. Certo, lo stipendio è di 29 mila euro lordi l'anno, c'è l'auto aziendale, ma cosa te ne fai di un salario decente se non hai tempo per te stesso? E le mansioni? Fare tutto: dallo scaricare pesanti cassoni all'allestimento del banco frutta, dalle pulizie alla sostituzione cassa quando la cassiera finisce il turno. Moltiplicato per 4-5 locali, spesso distanti centinaia di chilometri l'uno dall'altro. Per i primi 6 mesi, in formazione, Luca viene affiancato a diversi capifiliale. «Lavoravano tutti molte più ore di quelle da contratto - racconta - ma nessuno aveva il coraggio di protestare».
Così Luca continua a lavorare circa 16 ore al giorno, spesso senza avere il tempo neppure di mangiare un panino: nei primi tre mesi perde 5 chili, vede 20 capisettore dimettersi «per disperazione». Le domeniche erano quasi sempre regalate all'azienda, tanto che una volta si è trovato a fare 20 giorni consecutivi senza uno di riposo. Spesso veniva svegliato dai capi nel cuore della notte, per improvvise assenze di capifiliale: da Genova doveva così spostarsi a Torino, fare lì l'intera giornata di lavoro, e tornare poi in nottata a Genova, per riprendere l'indomani all'alba. «Arrivato in albergo, ogni sera, mi dicevo: mangio, dormo o mi lavo?». Questi ritmi disumani non figurano affatto sulle liste presenze: i capisettore segnano la «p» di presenza per commesse e capifiliale (loro sottoposti), senza indicare le ore lavorate. Per i capisettore, come Luca, la lista presenze è in mano ai capiarea (superiori con circa una quarantina di negozi), e lui afferma di non averla mai controfirmata. Una notte Luca finisce al pronto soccorso, per il forte stress: gli consigliano di fermarsi perché quei ritmi (e ha solo 28 anni) possono avere serie conseguenze sulla sua salute. Non si ferma, ma sarà la Lidl a liberarsi di lui: per una risposta ritenuta «di insubordinazione» a un capoarea, riceverà di lì a poco la lettera di licenziamento.
Impari tutto al master Lidl
I ritmi disumani di lavoro, e il licenziamento finale, sono capitoli comuni alla storia di Emanuele D., l'ex caposettore Lidl che ha dato origine al blog di Grillo. C'è però una differenza di rilievo: la sua formazione, più recente, è avvenuta a Verona, dove i quadri e dirigenti Lidl frequentano un apposito master: «Lì - spiega Emanuele - ti fanno un lavaggio del cervello: ti spiegano che devi essere spietato con gli addetti vendita e le cassiere, e per tutto il corso della formazione in campo i superiori ti insultano e ti maltrattano, rimproverandoti continuamente per i risultati che non hai ottenuto. Il messaggio è semplice: ti tratto così, poi tu farai lo stesso con i sottoposti». I ritmi di lavoro vengono misurati con delle vere e proprie tabelle di produttività, dividendo il fatturato per le ore lavorate: chi si trova sotto i livelli minimi, deve prepararsi a un fuoco di fila di rimproveri e minacce. «Accade anche per le cassiere - spiega Felicita Magone, addetta vendita ad Albenga e delegata Cgil - Si divide l'incasso per le ore lavorate. Oltre a essere sempre sotto pressione, non possiamo programmarci la vita, o cercare un altro lavoro per integrare uno stipendio che si aggira sui 600 euro: l'orario ci viene comunicato ogni due settimane, e cambia sempre. In molte filiali gli orari cambiano ogni settimana». Le donne sono penalizzate: pochissime arrivano a diventare capofiliali, restano perlopiù al livello di cassiera. «Un capoaerea giustificò questa differenza di genere spiegando che "per una donna è complicato essere già pronta e truccata alle 6,30, quando deve aprire una filiale"», conclude Felicita.
Walter Canta, capofiliale veneto, come Luca ha fatto una bella «cura dimagrante» stile Lidl: in soli dieci mesi di lavoro ha perso ben 8 chili, passando da 66 a 58 chili di peso. Walter racconta più da vicino il lavoro del negozio, perché il capofiliale ha la responsabilità di un solo punto vendita. Anche lui ha fatto 80 ore in media a settimana, sabati e domeniche inclusi, con lo «straordinario» tutto compreso nei cento euro lordi di «superminimo» erogati ogni mese. Ha lasciato perché ha contratto un'infiammazione alle spalle, a causa della «sbancalatura»: lo scarico, a partire dall'alba, di cassoni pesanti dai 10 ai 20 chili. E' un lavoro quotidiano che tocca a tutti i capifiliale e assistenti, così come le infiammazioni alle spalle, molto diffuse. «Per pranzo avevo a stento il tempo di mangiare un cracker, prendendolo dalla tasca, mentre scaricavo - racconta - Contavano le volte che andavo in bagno, ma nessuno protestava: se sbagli ti insultano violentemente». «Non è stato facile lasciare un posto a tempo indeterminato - conclude - oggi 1300 euro al mese assicurati sono una chimera. Ma tra l'infiammazione alla spalla, lo stress e il clima da terrore non ho retto più».

giovedì 7 agosto 2008

ma 'e solde pe' Camel chi te li dà? ...La borsetta di mammà!


Ma che bello trovare un posto di lavoro pubblico! Sembra il sogno di molti... Perchè mai dovrebbe essere così? Forse perchè tutti sognano di poter servire la patria? O sono anticapitalisti sfegatati? O non hanno altre opportunità?
La realtà credo che sia abbastanza diversa e conosciuta a tutti: nel pubblico si ha il posto fisso ed uno stipendio che di questi tempi è più che invidiabile. E poi gli straordinari sono pagati, non ci si ammazza di lavoro, 13esima e 14esima ecc. assicurate, buoni pasto, orari tranquilli...
Ma chi l'ha detto che deve per forza essere così? Non dovrebbe, il lavoro pubblico , essere determinato nelle forme e negli ordinamenti, dall'andamento dell'economia generale?
Spendete pure medici, politici, insegnanti, tanto a pagare ci pensa la borsetta di mammà Stato, che nemmeno per sogno metterà mai a rischio una parte considerevoli di voti.

martedì 29 luglio 2008

I giudici ciechi di Bolzaneto

L'articolo della Repubblica. Mi trova perfettamente, tristemente d'accordo.

Il legislatore non vuole che la giustizia penale funzioni


da "UGUALE PER TUTTI La legge! ... è ... dev'essere ... speriamo che sia ... dobbiamo fare in modo che sia ..."

Pubblichiamo, con il consenso dell'Autore e dell'Editore, un capitolo tratto dal libro "Toghe Rotte", edito da Chiarelettere e in libreria dal 20 settembre.

di Bruno Tinti
(Procuratore Aggiunto della Repubblica di Torino)

Mi hanno chiesto tante volte perché i giornali sono sempre pieni di notizie di scandali vari; perché nessuno di quelli che sembra li abbiano commessi sta mai in prigione; perché, anche dopo che questa gente è stata condannata per qualcuno di questi scandali, poi la ritroviamo coinvolta in scandali successivi; perché perfino i reati più comuni e, sotto certi aspetti, più gravi (rapine, estorsioni, sequestri di persona, traffico di droga, di armi, di bianche e colorate varie, corruzioni, infortuni sul lavoro, perfino omicidi) spesso sono commessi da gente che è stata già condannata per altri reati e che però è in giro a fare danni. Insomma mi hanno chiesto tante volte perché la giustizia non funziona.
Spesso me la sono cavata con questa storiella che, in genere, fa ridere e che mi ha salvato da un discorso che ormai mi dà la nausea. Siccome contiene grandi verità e aiuta a capire le cose, mi pare giusto cominciare con lei; si può intitolare “Come ammazzare la moglie e vivere felici”.
Allora. Per prima cosa si ammazza la moglie
La si ammazza con particolare efferatezza, adoperando sevizie e agendo con crudeltà verso le persone (dunque la si accoltella più volte dopo averla legata e torturata per giorni e giorni) sì da integrare l’aggravante prevista dall’art. 61 n. 4 codice penale; e lo si fa allo scopo di conseguire l’impunità dal reato di truffa per averla depredata di tutti i suoi averi (art. 61 n. 2 codice penale)
Subito dopo essersi assicurati che sia morta davvero si corre dai Carabinieri insieme con un avvocato e, in sua presenza, si rendono dichiarazioni spontanee (che quindi saranno utilizzabili processualmente; in assenza dell’avvocato di quel verbale si può fare carta straccia) con le quali li si avvisa che la moglie è morta, che la si è ammazzata personalmente e che il cadavere si trova, in uno con gli strumenti usati per torturarla e l’arma o le armi del delitto, in via tale numero tale al piano tale, interno tale; la porta è stata chiusa per evitare che estranei potessero contaminare il luogo del delitto ma la chiave viene consegnato illico et immediate ai Carabinieri.
I Carabinieri si recano sul luogo del delitto, constatano la rispondenza al vero di quanto denunciato dall’assassino, effettuano prelievi, accertamenti di polizia scientifica e i necessari sequestri.
Non arrestano il marito omicida perché:
1) - non sussistono specifiche ed inderogabili esigenze attinenti alle indagini relative ai fatti per i quali si procede, in relazione a situazioni di concreto e attuale pericolo per l’acquisizione o la genuinità della prova, fondate su circostanze di fatto espressamente indicate nel provvedimento (art. 274 codice di procedura penale comma 1 lett. A)
Il marito uxoricida infatti ha avvertito subito i Carabinieri che hanno raccolto tutte le prove ed anche la sua confessione. Sicché è escluso ogni pericolo di inquinamento probatorio.
2) - l’imputato non si è dato alla fuga né sussiste concreto pericolo che egli si dia alla fuga, (art. 274 codice di procedura penale comma 1 lett. B)
L’uxoricida si è presentato immediatamente ai carabinieri e questo, per giurisprudenza costante, esclude che dal suo comportamento possa desumersi l’intento di darsi alla fuga (e in effetti, se non si becca qualcuno con il piede sulla scaletta di un aereo diretto in Uruguay e con documenti falsi, non potremo mai dire che egli intende darsi alla fuga perché, se i documenti fossero veri, quello ci direbbe che sta per intraprendere un viaggio di piacere e non si potrebbe provare il contrario)
3) - Non si può, per specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità della persona sottoposta alle indagini, desunta da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali, pensare che sussista il concreto pericolo che questi commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si procede (Art. 274 codice di procedura penale comma 1 lett. C)
L’immediata confessione e l’essersi messo a disposizione dell’Autorità rendono impossibile ritenere che sussista il concreto pericolo etc.
E comunque trattasi di incensurato e specchiato lavoratore che nulla permette di ritenere intenda commettere gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata
Quanto ai delitti della stessa specie di quello per cui si procede, il nostro una moglie aveva e ormai l’ha ammazzata.
Iniziata l’indagine penale, il PM non chiederà misure cautelari e comunque il giudice non le concederebbe per tutti i motivi sopra spiegati.
L’indagine è brevissima, proprio perché le prove sono state tutte acquisite; si riduce a sentire i testi indicati dall’uxoricida a spiegazione del suo gesto e quelli indicati dai parenti della vittima.
Si arriva in breve all’udienza preliminare per il reato di cui agli artt. 575, 576 e 577 codice penale (omicidio che prevede la pena dell’ergastolo)
Ebbene:
L’uxoricida chiede di essere giudicato con il rito abbreviato che, a norma dell’art. 442 codice di procedura penale comma 2, prevede che la pena, determinata tenendo conto di tutte le circostanze, sia diminuita di un terzo.
Le circostanze aggravanti sono quelle di cui all’art. 61 n. 4 del codice penale (sono state adoperate sevizie) e 61 n. 2 (si è agito per assicurarsi il profitto della truffa).
La pena prevista è l’ergastolo.
Solo che:
L’uxoricida dimostra di avere ammazzato la moglie, e tanto crudamente, perché lei lo tradiva con il suo migliore amico (che, in quanto migliore amico, sarà ben lieto di confessare, a pagamento, una circostanza che non gli porta nessun nocumento – anzi, la moglie morta era giovane e bella e sarà invidiato da tutti – e che nessuno potrà smentire); sicché al nostro assassino tocca l’attenuante di cui all’art. 62 n. 2 codice penale, aver agito in stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui, avendo fortunosamente appreso dell’illecita e odiosa relazione della fedifraga.
Inoltre l’uxoricida farà offerta reale di una congrua somma di danaro ai parenti della moglie, a risarcimento del danno morale e materiale (la donna era solita sovvenirli con periodiche donazioni) cagionato, sicché gli tocca anche l’attenuante di cui all’art. 62 n. 6 codice penale (risarcimento del danno).
Infine egli potrà godere delle attenuanti previste dall’art. 62 bis codice penale che nessuno sa perché si concedono ma si concedono sempre; infatti si chiamano attenuanti generiche e vengono concesse perché si è tanto giovani, perché si è tanto vecchi, perché si è condotta una vita specchiata e meritevole, perché si è condotta una vita vergognosa ma la colpa non è tua, è del sistema, della scuola, della famiglia che tutti insieme hanno abusato di te, perché si è confessato (unica cosa giusta nel caso di specie) etc.
A questo punto il giudice deve governare (bella parola) l’art. 69 del codice penale secondo cui, in soldoni, si deve stabilire se pesano più le attenuanti o più le aggravanti (o se pesano nella stessa misura) e, nel caso di prevalenza delle une o delle altre, applicare solo gli aumenti o solo le diminuzioni. Manco a dirlo, il caso di soccombenza delle attenuanti non esiste quasi nella giurisprudenza italiana; sicché:
1) - una volta venute meno le aggravanti, la pena per l’omicidio non è più quella dell’ergastolo ma quella della reclusione da 24 a 30 anni (omicidio del coniuge, art. 577 codice penale);
2) - I giudici non danno il massimo della pena manco se li ammazzi; quindi 24 anni.
3) - Meno un terzo per il 61 n. 2, fa 16
4) - Meno un terzo per il 62 n. 6 fa 11,33 periodico;
5) - Meno un terzo per il 62 bis fa 7,5 mesi
6) - Meno un terzo per il rito abbreviato fa 5
7) - Siccome la moglie la si è ammazzata prima del maggio 2006, 3 anni di reclusione sono abbonati per l’indulto
8) - Per i restanti 2 anni c’è la sospensione condizionale della pena.
9) - Abbiamo comunque un anno di buono se le diminuzioni non vengono applicate nel massimo perché fino a 3 anni c’è l’affidamento in prova al servizio sociale.
A questo punto, di solito, tranquillizzo le mogli spiegando che tutto questo non è proprio verissimo perché il nostro saggio legislatore ha previsto l’art. 67 comma 1 n. 2 del codice penale che, nel caso di delitti originariamente puniti con la pena dell’ergastolo, limita le possibili diminuzioni, dovute ad attenuanti varie, fino a una pena minima di anni 10. In genere molti mi fanno osservare saggiamente che questa è la legge attuale ma appena qualcuno che conta ammazzerà la moglie e sarà beccato questa norma sarà senz’altro abrogata.
Io assento malinconicamente e comunque spiego che, se vogliamo restare proprio a termini di legge, in ogni caso si applica la legge Gozzini (per ogni anno di detenzione che sia stato scontato senza demerito – non con merito, buona condotta etc, tutti concetti desueti, basta non aver fatto casino - si abbuonano 3 mesi); sicché dopo 5 anni e qualche cosa si è ammessi alla detenzione domiciliare con ammissione al lavoro esterno, che vuol dire che la galera si sconta a casa quando si è finito di lavorare; più o meno come facciamo tutti noi.
Poi, arrivati a tre anni di pena residua, c’è l’affidamento in prova al servizio sociale.
Così, in conclusione, alla fine ammazzare la moglie costa 5 anni di galera mal contati.
Forse questa storiella è sufficiente per capire come mai la giustizia italiana funziona proprio poco e comunque male; ma, chi ha voglia di capire davvero può leggersi il breve corso post-universitario che segue.
La pena
Il corso accelerato di diritto e pratica penale comincia dalla sanzione: ogni reato è punito con una pena detentiva o pecuniaria, oppure entrambe; la pena varia da un minimo a un massimo; dove il minimo non è previsto, esso si intende, per le pene detentive - che sono quelle che ci interessano - , non inferiore a 5 giorni di arresto per le contravvenzioni e a 15 giorni di reclusione per i delitti.
I gradi di giudizio
La pena va inflitta con una sentenza di condanna che arriva all’esito di un processo; in realtà i processi sono più di uno perché nel nostro democratico e garantistico Paese ci sono 3 gradi di giudizio, Tribunale, Appello e Cassazione; e perché la pena possa essere eseguita occorre che tutti questi gradi di giudizio siano stati fatti, ovvero che sia trascorso il termine per proporre appello o ricorso in Cassazione. In molti civilissimi Paesi, come la Svizzera, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti, non ci pensano nemmeno a fare tanti processi: uno basta e avanza (in alcuni casi c’è la possibilità di un ricorso all’equivalente della nostra Cassazione); ma noi siamo meglio, lo sanno tutti, abbiamo tempo e soldi che ci escono dalle orecchie.
Il fatto che i gradi di giudizio siano 3 non significa mica che i processi sono 3; possono essere di più, anche assai di più. Può avvenire infatti che la Cassazione ravvisi una nullità nel processo di 1° grado (Tribunale) o in quello di 2° grado (Appello); in questi casi il processo deve essere rifatto lì dove è stata commessa la nullità e poi, naturalmente, nuovamente riesaminato nei gradi di giudizio successivi. Ci sono stati casi (vi dice niente il nome di Adriano Sofri?) in cui sono stati fatti più di 15 processi, tra avanti e indietro.
In realtà poi i gradi di giudizio non sono 3 ma 4: esiste infatti l’Udienza Preliminare nella quale si valuta si ci sono prove sufficienti per fare un processo. E’una cosa un po’difficile da capire: uno pensa che se Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza e Pubblico Ministero hanno raccolto prove contro qualcuno, poi ci vuole un Giudice per stabilire se queste prove sono valide e se questo qualcuno deve essere condannato oppure se è tutta fuffa e il qualcuno è vittima di un complotto o di una serie di deficienti che hanno preso lucciole per lanterne. Invece no, da noi ci vuole un Giudice (si chiama GUP, Giudice dell’Udienza Preliminare) che stabilisce se è il caso che un altro Giudice faccia un processo e valuti le prove; e come fa a stabilirlo? Beh, è ovvio, valuta le prove pure lui. E per farlo procede ad accertamenti vari, interrogatori, perizie, riconoscimenti di persona, insomma tutto quello che farà il secondo Giudice, se il primo (il GUP) decide che si deve fare il processo. Insomma due processi uguali, il primo che serve per stabilire se si deve fare il secondo.
La cosa fantastica è che il GUP, prima di mandare il fascicolo al Giudice del dibattimento, dà ordine di buttare via tutto quello che è stato fatto fino ad allora in modo che questo Giudice non sappia e non capisca niente di quello che è successo e debba ricominciare tutto da capo. Si chiama”garanzia della terzietà del giudice del dibattimento”, che significa che si dovranno interrogare di nuovo tutti i testimoni, rifare tutte le perizie etc. etc.; tanto la gente ricorda tutto con esattezza anche 5 o 6 anni dopo i fatti; e poi, ovviamente, nessuno ha pensato bene di andargli a spiegare il vangelo dicendogli quello che si deve ricordare e quello che è meglio che si dimentichi. E poi che volete che sia pagare di nuovo un altro perito per vedere, 5 o 6 anni dopo, se quello di prima era completamente scemo oppure solo un pò: tanto, l’ho già detto, i soldi ci escono dalle orecchie.
Le indagini della Procura della Repubblica
Prima dei processi c’è l’indagine: la fanno la Polizia, i Carabinieri, la Guardia di Finanza, le ASL, i VV.UU, le Dogane, l’Ufficio delle Imposte, la Guardia Forestale, l’INPS etc.; e tutta questa gente manda il risultato dell’indagine al Pubblico Ministero. A lui arrivano anche le denuncie inviate direttamente dai cittadini che si ritengono vittime di reati.
Il Pubblico Ministero guarda tutto (magari; comunque guarda tutto nel giro di un annetto o due, così è ovvio che si crea un pò di arretrato; dipende dalle Procure della Repubblica, si va da 3 mesi a 2 anni appunto) e poi fa altre indagini anche lui: interroga i testimoni, gli imputati, fa perizie, rogatorie, intercettazioni telefoniche ed ambientali e tante altre cose.
Questa storia delle intercettazioni è un po’ un teatrino, ogni volta il PM deve chiedere il permesso di farle ad un altro Giudice che si chiama GIP (Giudice delle Indagini Preliminari); da solo non può.
Questo GIP è lo stesso che ogni tanto fa il GUP solo che si cambia etichetta; la cosa complicata è che se un Giudice ha fatto il GIP in un’indagine poi non può fare il GUP in quella stessa indagine. Il principio è che un Giudice non deve sapere niente di quello su cui gli viene chiesto di decidere; deciderà in base a quello che si svolge davanti a lui; insomma, meno capisce e meglio è. Nei Tribunali piccoli ovviamente questo è un problema perché magari di GIP – GUP ce ne è uno solo o al massimo due e capita spesso che entrambi hanno fatto il GIP in una certa indagine oppure quello che potrebbe farlo è malato, in ferie, occupato etc.; così a un certo punto non si sa a chi far fare il GUP e finisce sempre che si deve chiamare qualcuno da qualche altro Tribunale. Tutto ciò naturalmente fa perdere un po’di tempo, sia nel posto dove si fa l’indagine, sia in quello da dove viene prelevato il GUP supplente che qualche cosa da fare in genere ce l’ha anche lui. Ma le garanzie di difesa prima di tutto.
Torniamo alle intercettazioni. Il PM manda tutto il fascicolo al GIP spiegando come, perché e a chi vuole fare le intercettazioni. Passano i mesi e a un certo punto il GIP (che nel frattempo non è che è andato a divertirsi, ha fatto altre centocinquanta cose del genere) gli risponde; può dirgli di si o di no. Il punto è che, anche se il GIP dice di si, forse dopo tanto tempo quelle intercettazioni non vale più la pena di farle. Comunque in genere ci si prova lo stesso.
Un altro sistema è quello di fare le intercettazioni senza l’autorizzazione del GIP, in via d’urgenza come si dice; naturalmente l’urgenza va motivata, il che non è molto difficile: forse si stanno commettendo reati o qualcuno sta per scappare o per distruggere prove importanti etc.; ci vuole fantasia, che diamine. In questi casi il GIP deve convalidare tutto nelle 48 ore; e in genere lo fa. Che poi nelle 48 ore si sia letto davvero i 3, 4 o 50 faldoni che contengono le prove che quello che gli dice il PM è proprio vero e che sono necessarie proprio quelle intercettazioni, beh, questa è un’altra storia.
Sia come sia, le intercettazioni cominciano. Ma finiscono subito perché la legge (articolo 267, 3° comma del codice di procedura penale) dice che possono durare solo 15 giorni. Se il PM vuole continuarle deve chiedere una nuova autorizzazione, una proroga.
Qui la cosa diventa umoristica ma in realtà tragica. Fare intercettazioni non è come andare a pesca, è un’indagine delicata, costosa, impegnativa, che occupa un sacco di gente che deve stare lì a sentire telefonate notte e giorno e avvisare subito il PM se succede qualcosa di importante; se si fa è perché serve proprio. Magari in 15 giorni non è ancora saltato fuori niente però può essere necessario continuare; magari si scopre che quel telefono è poco usato e che se ne usa un altro (nuova autorizzazione); magari uno degli intercettati parte per l’Africa e dice all’altro che tornerà fra 20 giorni e che si sentiranno allora (nuova autorizzazione). Insomma, qui si apre il balletto delle richieste di proroga e di autorizzazione. C’è una regola empirica da osservare con attenzione; continuando nell’esempio della pesca, se il PM dice che non ha ancora pescato nemmeno una trota ma che ci sono buoni motivi per pensare che presto abboccheranno, il GIP potrebbe non dargli l’autorizzazione perché – può pensare – in quel lago pesci non ce n’é. Ma se il PM dice che ha pescato un sacco di trote e che bisogna continuare perché se ne pescheranno altre, c’è il rischio che il GIP pensi che le trote siano già abbastanza e che è inutile continuare a pescare. Così la regola è che il PM dica sempre che di trote se ne sono pescate, si, ma poche e piccoline, e che è necessario prenderne altre; in questo modo l’autorizzazione è più sicura.
Tutto questo naturalmente passa per l’invio e la restituzione di tonnellate di carta che contengono dichiarazioni, documenti, consulenze, insomma tutto quello che serve per convincere il GIP che l’intercettazione è necessaria; e le tonnellate partono e arrivano al 13° giorno, due giorni prima della scadenza, perché si deve sfruttare tutto il possibile di quello che si intercetta. Così il povero GIP (che non ha certo solo questa cosa da seguire) deve decidere in 24 ore circa se concedere o no questa benedetta autorizzazione. E deve deciderlo per forza perché se l’intercettazione continua senza autorizzazione, poi si butta via tutto e, tra l’altro, intercettare costa un sacco di soldi. Così autorizza, incrociando le dita; o magari non autorizza, e l’indagine è fregata.
A un certo punto dell’indagine, poi, magari è necessario catturare qualcuno; anche qui serve il GIP, il PM gli manda le solite tonnellate di carta e la richiesta di”applicazione di misura cautelare”(una volta si chiamava”mandato di cattura”ma era effettivamente troppo crudo, si capiva subito che ti mettevano in prigione; del resto anche la prigione non si chiama più così, adesso si chiama”Casa Circondariale”. Però sempre celle con sbarre e tavolacci sono). E qualche volta si cattura.
Il Tribunale della Libertà
E qui c’è la crème de la crème, la panacea di tutti i mali, l’ultimo ritrovato in fatto di garanzie difensive, il Tribunale della Libertà, familiarmente chiamato il tielle (TL). L’imputato può fare appello al TL e chiedere che annulli il provvedimento del GIP che lo ha mandato in prigione.
Sicché non basta che Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza etc. abbiano raccolto prove per mesi; non basta che il PM abbia valutato e magari raccolto prove pure lui; non basta che il GIP abbia valutato e abbia deciso che il tizio sta proprio bene in galera. No. Serve che il TL sia d’accordo, che anche questo Tribunale (3 Giudici, mica uno) condivida tutto quello che è stato fatto.
E come fa a condividere? Deve studiarsi gli atti, naturalmente. Ma siccome gli atti servono anche al PM, si debbono fare copie. Quante? Beh, questo dipende. In primo luogo dal fatto che la fotocopiatrice funzioni, che il toner non sia finito e che ci sia la carta. E poi perché qui si apre il dilemma del Tribunale della Libertà. Bisogna mandare abbastanza prove da convincerlo che Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza, PM e GIP hanno avuto ragione e che Tizio deve stare in galera. Solo che queste prove le vede subito pure l’avvocato di quello che sta in galera, anzi in genere il motivo per cui è stato fatto appello al TL è proprio quello,”leggersi le carte”. Ora, in genere, su quelle carte non c’è solo quanto riguarda Tizio carcerato; c’è anche tante altre cose che riguardano altri, che ancora debbono essere presi; o nei cui confronti si stanno raccogliendo prove; ci sono i resoconti delle intercettazioni, da cui si capisce quali e quanti telefoni sono”sotto”, come si dice; ci sono i nomi dei testimoni che hanno reso dichiarazioni accusatorie e che non sono tanto contenti di essere conosciuti da quello che, per via di quelle dichiarazioni, è finito o finirà in gattabuia. Insomma, ci sono tantissime cose che gli avvocati e i loro clienti non devono sapere per il momento e che invece vogliono tanto sapere: perché così i catturandi potranno scappare e nascondersi, i documenti potranno essere distrutti, i testimoni potranno essere avvicinati e”convinti”che non hanno visto bene, che non sanno con precisione, che non ricordano, etc. etc.
Così il PM fa gli omissis, che non è una faccenda da poco: si prende il verbale di interrogatorio, lo si copia e lo si”sbianchetta” nelle parti che è meglio non far conoscere alle difese (però attenzione, non si può sbianchettare troppo se no il TL rischia di non convincersi e di scarcerare l’imputato); si scelgono i documenti, questo lo si manda, questo no. Insomma si forma il fascicolo del TL che alla fine, nei processi importanti, e nonostante tutti gli omissis, magari è composto da decine di migliaia di pagine. E lo si manda.
Qui comincia il calvario del TL che ha 10 giorni per studiare un’indagine che è durata mesi o anni, nel corso della quale un PM ha impiegato mesi per scrivere la richiesta di misura cautelare, un GIP se l’è studiata per altri mesi, consultando tutti (tutti tutti) i documenti del fascicolo, poi ha scritto anche lui per parecchi giorni fino a produrre il famoso provvedimento impugnato. E lui, il TL, anzi loro, i poveri 3 Giudici che lo compongono, debbono decidere in 10 giorni (da dividere con altre decine di appelli analoghi che gli sono arrivati nel frattempo), e sulla base di un fascicolo dimezzato, se Tizio deve restare in galera oppure no.
Adesso, che si deve pensare della geniale mente giuridica che ha ideato questa cosa? In quale mondo viveva? Cosa pensava che sarebbe successo?
Quello che succede nei fatti è molto semplice: il TL scrive i suoi provvedimenti come può, visto il tempo e gli atti che ha a disposizione; e forse Tizio resta in galera. Ma siccome anche questi provvedimenti sono soggetti a ricorso in Cassazione (tanto è gratis), quasi tutti presto o tardi vengono annullati perché nemmeno Rocco, Calamandrei e Cordero (tutti celebri giuristi del passato o del presente) potrebbero scrivere qualche cosa di decente con queste premesse e in queste condizioni. L’unica fortuna è che, come al solito, anche per arrivare al provvedimento della Cassazione ci va un po’di tempo e intanto l’indagine va avanti con Tizio che per un po’, visto che sta in galera, non manipola prove e testimoni e non scappa all’estero.
L’ultima perla è che gli appelli al TL possono essere reiterati, che vuol dire che se ne possono sempre fare di nuovi; basta che si aggiunga un argomento nuovo. Ora, se c’è una cosa che gli avvocati sanno fare bene, è questa di trovare argomenti a difesa. Non importa che siano fondati, importa che siano nuovi. Così il TL dovrà pronunciarsi un’altra volta e si potrà fare un altro ricorso per Cassazione. Magari i 3 giudici del TL sono diversi, magari la Cassazione cambia idea, e poi comunque appelli e ricorsi possono essere parcellati. Sicché altre copie (ma forse quelle di prima bastano), altri omissis, altri faldoni, altri commessi che viaggiano avanti e indietro con i carrelli, altri provvedimenti, altri ricorsi. In un giro perverso senza fine che termina solo con la conclusione dell’indagine. Che, si capisce, non è stata rallentata per nulla da tutto questo ambaradam.
Il processo
Insomma, per riassumere e nel caso uno si stia stropicciando gli occhi dicendo: ma non è possibile, si conferma: prima di arrivare ad una sentenza definitiva si deve passare attraverso un’indagine del PM che può essere caratterizzata da numerosi ricorsi e appelli al Tribunale della Libertà e da ricorsi in Cassazione contro i provvedimenti di questo; e 4 successivi processi (Udienza Preliminare, Dibattimento, Appello e Cassazione), per i primi 3 dei quali è possibile un’impugnazione che può anche determinare il ritorno del processo alla fase precedente. Una tela di Penelope giudiziaria vista la quale c’è da meravigliarsi che, nonostante tutto, qualche processo arrivi ad essere definitivamente celebrato.
Si capisce quindi che, per arrivare a questa sentenza definitiva ci va del tempo: difficile quantificare questo tempo, poiché, a parte la complessità del processo, molto dipende dall’impegno delle difese che, per prima cosa, tirano alla prescrizione (vedi un po’più avanti); e poi, si sa, dum pendet rendet che, in latino maccheronico, significa: fino a che il processo c’è il cliente paga. Si può dire che un processo (attenzione, tutto il processo, dall’indagine del PM alla Cassazione) banale (furto d’auto, ad esempio) richiede, oggi, un minimo di 6 anni; un processo difficile, importante, con molti imputati, può richiedere anche tre volte tanto. Ma tutto ciò non tiene conto del tempo passato tra il momento in cui il reato viene commesso e quello in cui si comincia ad indagare. Mica sempre l’indagine comincia il giorno stesso in cui è stato commesso il delitto: per un omicidio, una rapina, può darsi; ma per una corruzione, una frode fiscale, un falso in bilancio si comincia in genere molto tempo dopo, anche 3 o 4 anni. Chi glielo dice al Pubblico Ministero che c’è stato un reato di questo tipo? Il socio o il pubblico ufficiale che ne hanno ricavato un sacco di soldi? Certo che no. Quindi bisogna aspettare il caso fortunato, una verifica casuale della Guardia di Finanza o dell’Ufficio delle Imposte, un complice pentito, un articolo di giornale, una botta di fortuna insomma.
Ecco perché il tempo del processo è lunghissimo, tra una cosa e un’altra da un minimo di 6 anni fino a… mah, 15, 20, chi lo sa?
La prescrizione
Quanto tempo trascorre prima che un processo finisca è molto importante per il cittadino parte offesa e per l’imputato innocente: tutti e due hanno interesse a che il processo finisca presto e bene, che vuol dire per il primo risarcimento del danno e per il secondo fine di un incubo e restituzione dell’onorabilità perduta. Ma ancora più importante, in chiave opposta, si capisce, è per l’imputato colpevole: perché uno può essere condannato solo se non è trascorso il tempo necessario perché il reato di cui è imputato venga considerato prescritto. Quando invece è maturata la prescrizione, anche se l’imputato è giudicato colpevole (perché comunque il Giudice, se ritiene che l’imputato sia innocente lo deve dichiarare, anche se il reato è prescritto; quindi una sentenza di prescrizione è sempre una sentenza che ha accertato la colpevolezza), il reato viene dichiarato estinto e nessuna pena può essere inflitta. Sicché si capisce bene che l’imputato colpevole ha un interesse fondamentale: evitare di essere processato e definitivamente condannato prima che il reato da lui commesso sia prescritto.
Il termine di prescrizione è stabilito dall’articolo 157 del codice penale e dipende dalla pena massima prevista per il reato: più questa è elevata, più il termine di prescrizione è lungo: si va dai 30 anni per l’omicidio ai 5 anni circa per una contravvenzione (i calcoli sono un po’ complessi, questa è la risultante finale). In realtà però il termine di prescrizione può essere assai più corto perché esso dipende dal fatto che siano stati posti in essere i cosiddetti atti interruttivi, come previsto dall’articolo 160 del codice di procedura penale; vale a dire, in buona sostanza, una serie di attività processuali che presuppongono, appunto, l’apertura di un procedimento. Sicché, se, per esempio, nessuno ha denunciato un falso in bilancio commesso nel 2003, dopo appena 4 anni, alla fine del 2007 per intendersi, il reato sarà prescritto e non potrà più aprirsi alcun procedimento penale.
E’evidente allora che la pena prevista per ogni reato serve a determinare quanto tempo è necessario perché questo si prescriva: più la pena è elevata nel massimo, maggiore è il tempo necessario per la prescrizione. Se si considera la cosa da un altro punto di vista, e tenuto conto che il legislatore sa benissimo quali sono i tempi del processo penale, la previsione di una pena massima poco elevata serve ad impedire che si faccia a tempo a terminare il processo. E’facile capire quindi che pene miti equivalgono ad una garanzia di impunità.
A tutto questo qualcuno potrebbe obbiettare che il legislatore (ma chi sarà costui, sarebbe bello saperlo; alla fine tutti dicono che è stato quell’altro, quell’altro partito, quell’altra corrente, quell’altro insomma) si è fatto carico del problema e ha previsto una cosa importante, che in effetti fa molta impressione ai cittadini ignari di cose giudiziarie: se uno è già stato condannato, se è un delinquente conclamato, i termini di prescrizione aumentano e quindi lo si può condannare ancora. Il che è vero. Solo che questo legislatore non ha pensato che questo discorso vale per i soliti poveracci, quelli che vengono arrestati per essere venuti alle mani con un vigile urbano o perché, appena giunti dal Senegal, hanno spacciato due dosi di hashish per conto del trafficante che è comodamente seduto al vicino caffè (è questa la gente che affolla le carceri). Ma non vale, il discorso, per chi falsifica i bilanci, evade le imposte, corrompe i pubblici funzionari etc: questo individuo è sempre un incensurato, certamente non ha mai rubato in un supermercato un pezzo di formaggio né ha picchiato un carabiniere che gli chiedeva i documenti; ed è destinato a restare incensurato a vita perché i processi che contano non arrivano mai ad una sentenza di condanna. Si apre così un circolo perverso per il quale gente di questa risma non viene mai condannata una prima volta, non diventa mai”censurata”e quindi non viene mai condannata nemmeno in seguito.
Sicché questa è la prima frontiera del processo penale: arrivare alla prescrizione.
E ci si arriva sempre o quasi. Con un processo che dura un minimo di 10 anni, tutti i reati che si prescrivono in 5 o in 7 e mezzo sono matematicamente prescritti prima della fine.
Quanti sono questi reati? Il 95 % di tutti quelli che vengono commessi.
Non so se sono necessari commenti. Forse si: Forse è bene dire chiaramente che tutte le contravvenzioni in materia antinfortunistica, ambientale, ecologica, di inquinamento; tutti i delitti di corruzione, falso in bilancio, frode fiscale; tutti i delitti di maltrattamento in famiglia e violazione degli obblighi di assistenza famigliare, tutti i delitti di falsa testimonianza, tutti i delitti di truffa, anche ai danni dello Stato o di Enti Pubblici o dell’Unione Europea; tutti questi delitti e tanti altri che non cito perché sarebbe un elenco lunghissimo non saranno mai puniti. Nessun processo per questi delitti si concluderà con una sanzione effettiva. Nessuno che abbia commesso uno di questi delitti andrà mai in prigione.
I riti speciali
Il nostro geniale legislatore tutte queste cose non le sapeva; e così, pensando che il processo penale si sarebbe fatto, presto e bene, ha inserito nel codice due”riti alternativi”. Sono, questi, due particolari tipi di processo che consentono uno sconto di pena pari a un terzo e si chiamano patteggiamento e abbreviato.
Una parvenza di razionalità a fondamento di questi speciali tipi di processo ci sarebbe pure, una volta tanto. Nel patteggiamento ci si mette d’accordo tra accusa e difesa per evitare il processo: meno tempo, meno spese, meno fatica; concordiamo la pena e finiamola qui. Sicché è giusto che ci sia un premio per l’imputato, uno sconto di pena pari a un terzo in meno rispetto a quanto gli toccherebbe presumibilmente se venisse processato. Nel processo abbreviato l’imputato dice che può fare a meno del processo vero, quello in cui si interrogano di nuovo tutti i testi, si rifanno di nuovo tutte le perizie etc. etc. e che accetta di essere giudicato in base a quello che risulta dalle indagini fatte dal PM (per la verità con il tempo gli sono stati assicurati altri vantaggi: adesso ha diritto ad una”integrazione probatoria”, può pretendere che siano fatte indagini ulteriori). Anche in questo caso, si risparmiano un po’di soldi, di tempo e di fatica, e quindi viene concesso uno sconto; solo che, non si capisce perché, lo sconto è uguale a quello previsto per il patteggiamento, un terzo di pena in meno, nonostante che nel giudizio abbreviato tempo e fatica si spendono comunque e che, soprattutto, sono possibili Appello e ricorso per Cassazione, proprio come per un processo vero; e dunque le possibilità di tirarla in lungo fino alla prescrizione rimangono quasi intatte.
In ogni modo non vale la pena di prendersela troppo: tanto di questi processi speciali non se ne fanno praticamente più. Il che è ovvio: tutti quei calcoli sulla prescrizione, sulla durata del processo, sull’impossibilità di arrivare in tempo ad una sentenza definitiva li sanno fare benissimo anche gli avvocati. E allora quale sarà il mentecatto che consiglierà al suo cliente di accettare un processo che dura poco tempo e si concluderà con una condanna, sia pure più lieve, quando ha la certezza di tirarla in lungo fino alla prescrizione e di non scontare nemmeno un giorno di galera? Ovviamente nessuno. Anche perché, come si è detto, più il processo dura, più il cliente paga e quindi vi è una reale convergenza di interessi tra l’imputato e il suo difensore: il primo sarà comunque assolto; e il secondo guadagnerà un sacco di soldi.
Così c’è un patteggiamento solo che si fa: quello in Appello, quando gli avvocati, fattisi due calcoli, capiscono che il rischio di arrivare in tempo a una sentenza definitiva, confermata dalla Cassazione, è alto. E qui si baratta il tempo di celebrare l’appello e la fatica di scrivere una sentenza con una, anche grossa, diminuzione della pena inflitta dal Tribunale: capita che gli 8 anni per una rapina diventino 4 o 5, i 10 anni per un grosso traffico di droga diventino 5 o 6 e così via. E questa cosa è molto importante perché il momento di uscire di prigione con tutti gli onori per via di qualche altro assurdo istituto di cui parleremo più avanti (semidetenzione, lavoro esterno, affidamento in prova al servizio sociale) si avvicina molto.
La sospensione condizionale della pena
Fino ad ora si è visto che, per tanti motivi, il processo non si fa; o meglio, si fa, ma non viene condannato nessuno.
Però non si sa mai; qualche volta (poche poche) ad una sentenza in tempo utile ci si arriva; e uno si aspetterebbe che, a questo punto, il colpevole finisca in prigione. E qui, se ci fermiamo a considerare quanto tempo il condannato dovrà passare in prigione, le sorprese aumentano.
L’articolo 163 del codice penale prevede che chi è condannato ad una pena non superiore a 2 anni, se è incensurato, cioè se non è mai stato condannato in precedenza (ma se ha in corso processi non ancora conclusi lui è, come si dice, formalmente incensurato), in prigione non ci vada proprio: la condanna resta sospesa per 5 anni, dopo di ché, se il nostro non ha commesso altri reati, non ci andrà mai più. Non solo, questa sospensione condizionale della pena (in gergo tecnico si chiama così) può essere concessa per due volte, sempre che non si superino complessivamente i 2 anni di reclusione. Insomma si può essere condannati due volte: se la pena complessiva non supera i due anni di reclusione, niente prigione.
Le circostanze attenuanti
La pena prevista dal codice penale per un determinato reato non ha niente a che fare con quella a cui si viene condannati; a diminuirla sostanziosamente ci pensano le circostanze attenuanti che sono previste all’articolo 62 del codice penale. Una volta stabilita la cosiddetta pena base, essa può essere ulteriormente diminuita di un terzo per ogni attenuante riconosciuta: per esempio, una pena di 6 anni di reclusione può essere ridotta ad 4 anni, e poi a 2 anni e 8 mesi, e poi 1 anno e 7 mesi e 15 giorni (circa) etc..
E’vero che esistono anche le aggravanti, previste all’articolo 61 del codice penale; ma, secondo quanto disposto dall’articolo 69 del codice penale, quando esistono aggravanti e attenuanti insieme, si deve procedere a quello che viene chiamato giudizio di bilanciamento, decidendo in buona sostanza se pesano di più le une o le altre; e, manco a dirlo, quelle che restano sono sempre le attenuanti.
Ora, il problema è che le attenuanti sono già tante per conto loro (i motivi di particolare valore morale e sociale, lo stato d’ira, la suggestione della folla in tumulto – si proprio così - , il danno lieve, il risarcimento del danno); ma non basta: c’è anche quella prevista dall’articolo 62 bis del codice penale, le attenuanti generiche. Come dice la parola, queste attenuanti sono generiche, senza contenuto preciso; possono essere concesse (e di fatto lo sono) per i più vari motivi: perché si è giovani e non si comprendeva appieno il disvalore del fatto (questo scrivono alcuni giudici); ovvero perché si è in età avanzata, e ciò merita un trattamento sanzionatorio differenziato (è in gestazione una legge che prevede come le attenuanti generiche debbano essere obbligatoriamente concesse a tutti gli imputati che hanno superato i 65 anni di età); ovvero perché si è Presidenti del Consiglio e questa particolare carica istituzionale ne impone la concessione (è una motivazione reale, di una sentenza di Cassazione realmente pronunciata). Si capisce bene quindi che le attenuanti generiche vengono concesse sempre o quasi; tanto che, nelle aule di giustizia, si dice che le attenuanti in questione sono come un bicchier d’acqua: non si negano a nessuno.
Anche le attenuanti generiche permettono la diminuzione della pena di un terzo; e così è evidente che la pena minima prevista dal legislatore per un determinato reato non è minima per niente: perché può essere, e di fatto è, diminuita ancora moltissimo.
Così quasi sempre in prigione non ci si va comunque, anche se la pena iniziale era superiore, anche molto superiore ai 2 anni; perché poi con le attenuanti sotto i 2 anni ci si finisce comunque.
La sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria
Può capitare che il condannato non sia incensurato: in tempi meno garantiti qualche condanna gliel’hanno ficcata. Oppure non si vuole sprecare la sospensione condizionale della pena: può tornargli buona in futuro. Allora si ricorre ad altre soluzioni. Quella molto praticata è sostituire la prigione con i soldi.
Secondo l’articolo 53 della legge 24 novembre 1981, n. 689, ogni pena detentiva che non superi i 6 mesi può essere sostituita con una pena pecuniaria: ogni giorno di prigione vale 38 euro; e dunque 6 mesi di prigione possono essere evitati con una multa pari a 6.840 euro.
Si, ma 6 mesi sono pochi, magari si è condannati a una pena più alta … Beh, facciamo attenzione. Il codice penale prevede sempre un massimo e un minimo; certe volte addirittura il minimo non è previsto. Ora non si è mai capito bene perché, ma ottenere dai Giudici condanne a pene superiori al minimo è sempre stata una cosa difficilissima. Certe volte ci si è riusciti per i reati tradizionalmente gravi, omicidi, rapine, estorsioni, traffico di droga. Ma superare i minimi di pena per falsi in bilancio, frodi fiscali, corruzioni, bancarotte, inquinamenti vari, abusi edilizi etc. è talmente raro che le volte in cui ciò capita possono essere contate sulle dita di una mano di un infortunato sul lavoro (tanto per restare in tema). Forse i Giudici sono convinti che perdonare sia una cosa buona; e quindi sono portati a infliggere pene miti, giocando un po’ a fare Dio misericordioso; forse pensano che l’assunzione di responsabilità di chi perdona o assolve sia inferiore a quella di chi condanna o comunque infligge pene severe; forse sono semplicemente figli del loro tempo e pensano che evadere le tasse e pagare qualche bustarella non sia in fondo così grave; non si sa. Certo è che per un certo tipo di reati pene che superino l’anno, l’anno e mezzo di prigione sono rarissime; e comunque si attestano saldamente sul minimo previsto dal codice.
Solo che qui intervengono i meccanismi di riduzione della pena: con due attenuanti, magari risarcimento del danno e attenuanti generiche, una pena originaria di un anno scende a 5 mesi e 10 giorni; se si sceglie un rito alternativo (il patteggiamento o l’abbreviato) a 5 mesi e 10 giorni si arriva partendo da un anno e mezzo. E Giudici che ficchino un anno e mezzo di prigione ce ne è proprio pochi.
Così, con meno di 6.000 euro, il processo si chiude; gli amici daranno pacche sulle spalle e si congratuleranno per lo scampato pericolo. E - ma non sarebbe bene che qualcuno cominciasse a preoccuparsi? - si è pronti a ricominciare.
La sostituzione della pena detentiva con la libertà controllata
Magari a 6 mesi di prigione, pur con tutta la buona volontà, non ci si arriva; la pena resta inesorabilmente superiore, forse 8 mesi, 1 anno. Ma ci sono altri mezzi per farla franca. Uno è previsto dallo stesso articolo 53 della legge 689 del 1981, quello già citato prima: si tratta della libertà controllata.
Che roba è? Non si sta in carcere, ecco tutto. Se uno è stato condannato a una pena che non supera l’anno e non può o non vuole spararsi la sospensione condizionale della pena, non va in prigione comunque. Ha qualche restrizione, non può allontanarsi dal comune di residenza senza autorizzazione, ogni tanto deve farsi vedere dalla Polizia, gli ritirano la patente (ma magari ha l’autista) e il passaporto (per l’Unione Europea non gli serve); però in prigione non ci va. E, come al solito, ad anni 1 di prigione ci si arriva anche partendo da una pena di 3 anni (due attenuanti e un rito alternativo e il gioco è fatto).
Anche qui dunque, nel deprecato caso di un processo che si faccia veramente, il delinquente può stare tranquillo.
La sostituzione della pena detentiva con la semi detenzione
Quello che fa proprio arrabbiare le brave ed oneste persone è la semidetenzione.
E’sempre il solito articolo 53 che prevede che per pene fino a 2 anni (dunque con partenza da 4 e mezzo mal contati) la prigione è sostituita con la semidetenzione. E cos’è? Semplice, si torna a dormire in carcere; per il resto si sta fuori con gli stessi limiti della semilibertà. Insomma ti risolvono il problema dell’alloggio. Questo ha commesso qualche grave reato, lo condannano, lo mandano a spasso e gli danno anche da dormire.
Per arrabbiarsi bene fino in fondo un’ultima chicca: questo articolo 53 risale, come si è visto, al 1989. Solo che allora i limiti di pena previsti per la sostituzione della pena con i soldi, con la libertà controllata e con la semidetenzione erano 1 mese, 3 mesi, 6 mesi; siccome in quegli anni c’era l’inflazione (è una scemata, ma non mi viene in mente nessuna altra valida ragione) nel 1993 questi limiti sono stati portati a 3 mesi, 6 mesi e 1 anno; e poi, nel 2003, ai livelli attuali, 6 mesi, 1 anno 2 anni.
A quando un ulteriore adeguamento? Magari quando qualche persona che conta sia stato condannato, nonostante tutto, a 3 anni di galera?
L’affidamento in prova al servizio sociale
In ogni modo, nessun imputato si preoccupa troppo di finire in prigione, perché, se il processo fortunosamente arriva alla fine, se viene emessa sentenza di condanna, se la pena è superiore a 6 mesi e dunque non si può convertire in pena pecuniaria; se non si riesce a restare nei limiti che consentirebbero la sospensione condizionale della pena; se non riesce a godere della libertà controllata e nemmeno della semi detenzione; se tutto va male (dal punto di vista del condannato, si capisce), vi è una esilarante uscita di sicurezza: l’affidamento in prova al servizio sociale (in luogo della prigione) per tutti i condannati a pena non superiore a 3 anni, così come previsto dall’articolo 47 dell’ordinamento penitenziario. Questo significa che, per restare in tema, un amministratore di una importante società, condannato ad una pena superiore a 2 anni ma inferiore a 3, non finirà in prigione e dovrà adattarsi a riferire ad un assistente sociale come e qualmente sia pentito delle malefatte di cui è stato giudicato colpevole, quale sia il tipo di vita che conduce (naturalmente del tutto diverso da quello menato fino ad allora), in qual modo sta emendandosi etc. etc.
Che nessuno abbia mai seriamente osservato qualcosa sull’incongruità di simile istituto non cessa di stupirmi.
Per la verità, siccome l’appetito vien mangiando ed è pur vero che l’affidamento in prova ai servizi sociali viene comunque dopo una sentenza di condanna, è recentissima la proposta di legge n. 3452 (secondo i quotidiani essa è stata qualificata”urgente”) secondo la quale per reati puniti fino a 3 anni di carcere (i”reati che contano”sono, guarda caso, puniti sempre con pene non superiori a 3 anni) il processo può essere sospeso e l’imputato affidato ai servizi sociali; a fare cosa non viene detto con precisione, ma certo qualcosa da far fare a un Amministratore di società o a un Presidente di Consiglio di Amministrazione si troverà. Così non solo l’impunità è certa ma si evita anche una scomoda sentenza che affermi che il reato venne commesso e che a commetterlo fu proprio l’imputato.
La detenzione domiciliare
Mica è sufficiente; qualcuno potrebbe essere condannato a pena superiore a 3 anni. Niente paura: fino a 4 anni, l’art. 47 ter dell’ordinamento penitenziario consente ai delinquenti di scontare la pena a casa loro o in qualsiasi altro luogo essi indichino.
Il nostro delinquente tipo, quello che si è portato a casa qualche milione di euro a seguito di uno dei tanti reati che non vengono mai accertati, non vengono mai puniti e, se pure puniti sono, mai mai mai lo saranno con pene superiori a 4 anni; sconterà dunque la sua pena presso un qualche hotel Excelsior con piscina, sala conferenze, suite con idromassaggio e collegamenti multimediali con il resto del mondo. Oppure, per farla più semplice, presso la sede della sua società, opportunamente riattata per ospitarlo in un lussuoso appartamento. Gli tocca non uscire, questo è vero; ma non credo che gli mancheranno visite e distrazioni.
Una chicca importante da considerare è che questa detenzione domiciliare non è consentita solo se uno ha avuto 4 anni di prigione; gliela danno quando ”arriva”a 4 anni. Vale a dire che se è stato condannato a 6 anni, se ne fa (ma è da vedere) 2 e poi gli viene data la detenzione domiciliare.
La semi libertà
L’ultima trovata è la semi libertà (art. 48 dell’ordinamento penitenziario).
Chiunque può essere ammesso alla semi libertà che significa che se ne va in giro a lavorare, a fare vita sociale, a fare, come dice virtuosamente la legge, ”attività utili al reinserimento sociale”; e poi la sera torna in carcere.
Attenzione: questo beneficio può essere concesso qualsiasi sia la pena che uno deve scontare, purché ne abbia scontata la metà; quindi se uno è stato condannato a 10 anni di prigione, dopo averne scontati 5 (formalmente, vedi più avanti la famigerata”legge Gozzini”) se ne va in giro tranquillamente, salvo rientrare in prigione per dormire.
La legge Gozzini
1 anno sono 12 mesi per chiunque; ma per quelli che stanno in prigione sono 9 mesi.
Ciò perché l’art. 54 dell’ordinamento penitenziario prevede che”al condannato che abbia dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione”vengano detratti dalla pena che deve scontare 1 mese e 15 giorni per ogni semestre, 3 mesi all’anno appunto.
Insomma 6 anni di galera non sono 6 anni ma sono 4 anni e mezzo; 10 anni sono in realtà 7 anni e mezzo e via così.
La cosa allucinante di questa faccenda è che i Giudici hanno finito con l’interpretare la”partecipazione all’opera di rieducazione”nel senso che il nostro condannato non deve aver fatto casino. Insomma, non è richiesto che abbia salvato un giovane compagno di cella dal tentativo di stupro del trucido pluricondannato; non è necessario che abbia svolto attività di assistenza ai malati; non gli si chiede di lavorare gratis al servizio dell’Amministrazione carceraria; niente di tutto questo. Basta che pensi agli affari suoi e non sollevi problemi.
Ancora più incredibile è che ogni semestre la valutazione parte ex novo, senza considerare i semestri trascorsi: così, se un detenuto ha messo su una bella rivolta, repressa a fatica con l’uso delle armi; ma poi il semestre successivo è stato tranquillo a leccarsi le ferite in infermeria, beh, gli vengono riconosciuti 1 mese e mezzo di abbuono sull’anno
Si capisce bene quindi che arrivare alla metà della pena inflitta non è così difficile come sembra; e a quel punto c’è la semi libertà. Se poi si arriva con qualche mese di galera ai 4 anni residui, ecco che scatta la semidetenzione; e poi dopo un annetto, l’affidamento in prova al servizio sociale.
Riassunto
Dopo tante pagine di informazioni così sconvolgenti, il lettore starà sicuramente dicendosi”non ci posso credere”,”ma veramente?”o qualcosa del genere.
Si, ci si deve credere; ecco una tavola sinottica:
Il processo termina, nel 95 % dei casi con una sentenza di non doversi procedere perché il reato è estinto per prescrizione
Nei restanti casi:
a) le pene fino a 6 mesi di prigione vengono convertite in pene pecuniarie: 38 euro al giorno, 6 mesi sono 6840 euro
b) le pene fino a 2 anni non si scontano: c’è la sospensione condizionale della pena
c) se non si può avere la sospensione condizionale della pena:
d) pene fino ad un anno di prigione vengono scontate con la libertà controllata (si sta a casa propria o dovunque si voglia, basta comunicarlo alla Polizia)
e) pene fino a due anni di prigione vengono scontate con la semidetenzione; si va in giro durante il giorno e si dorme in carcere (sempre che non si usufruisca dell’affidamento in prova al servizio sociale)
f) pene fino a 3 anni di prigione vengono scontate con l’affidamento in prova al servizio sociale: si svolge qualche attività socialmente utile (mi pare che Previti voglia fare l’avvocato dei bambini) e si è liberi come l’aria
g) pene fino a 4 anni di prigione vengono scontate con la detenzione domiciliare: (si sta a casa propria o dovunque si voglia, basta comunicarlo alla Polizia); naturalmente arrivati a 3 anni scatta l’affidamento in prova al servizio sociale
h) sia l’affidamento in prova che la detenzione domiciliare scattano quando si arriva alla soglia dei 3 anni per il primo e dei 4 per la seconda; quindi funzionano pure per gente condannata a pene gravissime (ma in pratica non ce n’è); insomma gli ultimi 4 anni in un modo o nell’altro vengono abbuonati
i) il tempo che si passa in galera passa più in fretta: 9 mesi valgono un anno; quindi uno condannato a 6 anni in realtà ne deve fare solo 4 e mezzo; anzi solo mezzo, perché poi c’è la detenzione domiciliare per un anno e per i restanti 3 anni c’è l’affidamento in prova al servizio sociale.
A questo punto, sapete chi ci sta in carcere? Qualche omicida e qualche rapinatore, una sterminata quantità di extracomunitari che hanno rubacchiato o spacciato qualche dose; e - per poco, pochissimo tempo – qualche delinquente che il PM e il GIP hanno arrestato mentre si svolgono le indagini e che, per scadenza termini o perché il TL li ha messi fuori, sono usciti dopo 2 o 3 mesi, pronti a trascinare il processo fino alla prescrizione.
L’indulto
A tutto questo si aggiunge (non si sostituisce, proprio si aggiunge) la grande opera di magnanimità, pietà e pragmatismo cui, da subito, si è dedicata la nuova maggioranza: l’indulto.
La parola è, nella pratica, sinonimo di condono: vuol dire, in buona sostanza, che un certo numero di anni di galera, inflitti a seguito di tutti quei processi di cui abbiamo visto all’inizio le ridicole ma costosissime caratteristiche, viene abbuonata. Sei stato condannato a 2 anni di galera? Fa niente, abbiamo scherzato, non ti ci mandiamo. Sei stato condannato a 3 anni di galera? (magari per aver truffato un centinaio di milioni di Euro alla Regione, allo Stato, all’Unione Europea, di cui nulla è stato recuperato e che restano a tua disposizione in una banca della isole Cayman) E’lo stesso, non se ne fa niente, vai e spenditi i tuoi soldi. Sei stato condannato a 6 anni di galera per corruzione in atti giudiziari, falso in bilancio, truffa, evasione fiscale etc. etc.? Fa niente, 3 anni te li abbuoniamo e per gli altri 3 c’è l’affidamento in prova al servizio sociale.
Ecco perché l’indulto si somma, non sostituisce: perché si aggiunge a tutti gli altri sconti, perdoni, soluzioni alternative che si sono già viste. Insomma, condanne fino a 6 anni di reclusione (per reati commessi a tutto il maggio 2006) non si scontano proprio; per quelle un po’superiori condono, affidamento in prova al servizio sociale e poi, a scelta, legge Gozzini (quella dell’anno che vale 9 mesi), detenzione domiciliare, libertà controllata.
Perché l’indulto è stato votato da quasi tutti i partiti, senza distinzione di fede e di schieramento, è una cosa difficile da spiegare: i cittadini non erano per niente d’accordo, la motivazione era ridicola (dobbiamo sfollare le carceri: ah si? E allora perché avete compreso nell’indulto falso in bilancio, frode fiscale e altri reati di questo tipo per i quali manco uno era in prigione?), le strade si sono affollate di rapinatori e ladri che hanno subito ricominciato; perché sarà stato fatto non si sa.
Certo che qualcuno che era obbligato a stare in carcere a casa sua (non era proprio scomodo, bella casa in bel posto di bellissima città) adesso si dedica a servizi di pubblica utilità”sorvegliato”da un assistente sociale; ma basta per quella che viene pomposamente chiamata ”Legge dello Stato”?
Sapere che condanne fino a 6 anni non si scontano fa proprio effetto.
Però, ora che ci penso, anche sapere solo che non si scontano condanne fino a 4 anni, anche quello fa effetto. Ai cittadini tutti. Ve lo immaginate che effetto fa a uno che ci lavora per arrivare a questo risultato?