La denuncia del rapporto della Fondazione per i diritti umani
PATRIZIO GONNELLA - Il Manifesto, 29 Giugno 1999
Il professor Veli Lök dirige la Fondazione per i Diritti Umani (Hrft) a Izmir in Turchia. E' un medico e si occupa di riabilitazione delle vittime della tortura. Quando l'ho incontrato la prima volta nel 1997, raccontava che in Turchia la tortura non era il frutto dell'eccesso di zelo di un funzionario alla ricerca delle prove di accusa, bensì una pratica sistematica di governo, utilizzata, in particolar modo, contro i movimenti e i partiti di opposizione nel sud-est del paese. La Turchia è l'unico paese europeo ad essere stato condannato per ben due volte dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura.
Nei giorni drammatici della vicenda Ocalan, è stato arrestato ad Ankara Akin Birdal, leader dell'Associazione per i diritti umani della Turchia. Prima di essere incarcerato nella prigione di Ankara - dove deve scontare due anni di reclusione a seguito delle sue denunce al Comitato europeo per la prevenzione della tortura sugli abusi nelle carceri e nelle stazioni di polizia -, Birdal ha dichiarato che non c'è libertà di espressione e di pensiero in Turchia. "Stare dentro o fuori dal carcere non è molto diverso. Fuori è come un carcere aperto".
L'arresto di Birdal ha fatto crescere le preoccupazioni per la sorte di Lök, che solo pochi giorni prima aveva inviato all'associazione Antigone l'ultimo rapporto redatto dalla sua Fondazione sui diritti umani in Turchia. E guarda caso il rapporto si apre proprio con il racconto di un oscuro attentato ai danni di Birdal. E' legittimo sospettare che il tentato omicidio sia connesso alla sua attività a favore dei diritti umani.
Nel rapporto si ribadisce che la tortura in Turchia è ritenuta efficace pratica di governo. I centri della fondazione funzionano come unità di strada in prossimità delle stazioni di polizia e delle carceri. Raccolgono per le vie i torturati. Sono, però, soltanto una minoranza quelli che accettano poi di presentare denuncia, poiché temono ritorsioni. Ad esempio, quando nell'ottobre del 1997, trenta studenti sono stati torturati a Devutlar, solo uno di loro ha presentato denuncia. Il rapporto descrive in tragica sequenza, caso per caso, tutti gli abusi di cui i medici della Hrft sono venuti a conoscenza. Ecco alcuni esempi.
Morire in stato di detenzione. Mehmet Yavuz, 21 anni, morto sotto tortura negli uffici di sicurezza di Adana, dopo essere stato arrestato il giorno prima a Diyarbakir. Suo padre racconta: "Gli ufficiali di polizia hanno verbalizzato che Mehmet sarebbe morto per infarto. Ma c'erano ferite in tutto il corpo. La sua testa e le braccia erano rotte. Il corpo era pieno di bruciature di sigarette. Le unghie erano state estirpate".
Sparizioni forzate. Metin Andas, 46 anni, arrestato e condannato a 3 anni e 9 mesi per avere partecipato ad una manifestazione ambientalista a Bergama, è scomparso dopo essere entrato in prigione. Da 180 settimane un gruppo di madri, ogni sabato, manifesta davanti alle stazioni di polizia per avere notizia dei propri figli scomparsi. Molte di queste madri sono state arrestate.
Tortura. 350 persone, nei soli primi sei mesi del 1998, hanno chiesto aiuto al Centro di riabilitazione e trattamento della Hrft. Trentasette sono le tecniche di tortura riscontrate nei centri. Destinatari privilegiati sono gli oppositori politici, ma non solo. Un ufficiale di polizia, Onder Topbas, accusato di omicidio, durante il processo ha affermato di essere stato torturato durante gli interrogatori: "Mi dissero che avrebbero violentato mia moglie. Io preferirei cadere nelle mani del Pkk piuttosto che, nuovamente, in quelle della polizia di Istanbul".
Impunità dei torturatori. I torturatori sono protetti, incoraggiati, spesso promossi ed assegnati ad altri più prestigiosi incarichi. Le perizie medico-legali, cruciali nel comprovare i maltrattamenti, sono spesso condotte senza l'ausilio di esami specialistici. Molti procedimenti si estinguono per prescrizione.
Il rapporto presenta un paese governato con il terrore e con la violenza. Ora si spera che non vi siano ritorsioni per Lök e gli altri membri della Fondazione. Essi ripetono continuamente: "Più il nostro lavoro è pubblicizzato, più siamo conosciuti all'estero, più aumenta la pressione internazionale sulla Turchia, meno le nostre vite sono a rischio".
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