lunedì 3 dicembre 2007

Finchè c'è la salute va tutto bene...


Da ilmanifesto di ieri

Sovversione di stato

Gabriele Polo

Un processo da pilotare, scansare, svuotare. Con una serie di false testimonianze rese da rappresentanti dello stato per difendere un'istituzione dello stato. Anche a costo di screditare, svilire, immobilizzare un'altra istituzione dello stato. Il tutto diretto dai massimi vertici di chi dovrebbe garantire la sicurezza dei cittadini e, invece, tutela solo se stesso e il suo potere.
Genova, G8, processo per i fatti della Diaz: quello che pubblichiamo a pagina 3 è il racconto di un tentato sopruso contro il diritto, per coprire la messa in mora del diritto durante due terribili giornate di un'estate di sei anni fa. Le false testimonianze dei dirigenti di polizia su indicazioni dell'allora capo della polizia Gianni De Gennaro (poi promosso a capo di gabinetto del Viminale), il tentativo di smontare l'inchiesta sulla mattanza della Diaz attaccando il magistrato inquirente e la partecipazione a tale disegno dell'attuale capo della polizia, Antonio Manganelli, possono essere letti come una «semplice» difesa di interessi personali o come una «nobile» tutela dell'onorabilità di corpo. Ma probabilmente c'è qualcosa di più profondo e grave.
Sappiamo tutti cos'è stata Genova 2001, nell'evidenza delle violenze e degli abusi. Sappiamo qual è stato il suo senso politico, nell'indiscubilità del dominio che nessuna piazza avrebbe più dovuto contestare. Ma sappiamo meno quale ridefinizione dei poteri dello stato si sia praticata in quei giorni tra piazza Alimonda, la scuola
Diaz e la caserma di Bolzaneto. Ora, l'inchiesta che dovrebbe portare (condizionale d'obbligo) al rinvio a giudizio di Gianni De Gennaro ci aiuta a capire meglio.
L'accusa per De Gennaro è d'istigazione alla falsa testimonianza, cioè una regia tesa a coprire e difendere il sistema costruito dall'ex capo della polizia: una gestione dell'ordine pubblico totalmente svincolata dal controllo della magistratura. Genova,
l'assalto alla Diaz fatto in assenza di alcuna tutela di legge (il magistrato avrebbe dovuto essere come minimo informato), rivelano una sovversione interna allo stato: prima un uso tutto politico - appoggiato dal potere esecutivo - dell'ordine pubblico, poi la polizia che si appropria del potere d'arresto e di persecuzione penale. La rappresentazione esemplare di cosa avrebbe dovuto essere quella struttura centrale di Ps (nata poi nel 2006) costruita a immagine e somiglianza dell'Fbi, il modello americano che bypassa la magistratura tanto caro a De Gennaro, che con gli apparati Usa ha ottimi rapporti. Da qui le bugie («siamo stati attaccati»), le false prove (le molotov «trovate» alla Diaz), le false testimonianze per smontare il processo.
A che punto sia arrivata tale degenerazione lo indicherà la sorte del processo di Genova. Quali argini esistano ancora a una gestione autoritaria e «indipendente» dell'ordine pubblico, quali limiti abbiano i suoi dirigenti, lo dovrebbe dire il governo.
PAGINA 3:
Inchieste G8 Le intercettazioni dei vertici della polizia sulla «notte cilena» di Genova 2001
Così volevano smontare la Diaz Il capo m'ha dato le sue deposizioni, devo aggiustare il tiro sulla stampa. E dopo la deposizione era contento. Bravo, m'ha detto, li hai
hai sbranati Il capo e Manganelli, dicono: non ti preoccupare perché qui dobbiamo fa un'azione comune e rompere il cazzo a sto cazzo di magistrato La deposizione truccata dell'ex questore Colucci. E il ruolo «attivo» dell'ex capo della polizia De Gennaro, dell'attuale Manganelli, del questore di Bari Gratteri e di Luperi, ai vertici del
Sisde Sara Menafra Vertici della polizia contro la procura di Genova. Obiettivo: smontare il processo sui fatti della Diaz, «sbranare», come avrebbe detto De Gennaro, i pm che hanno messo i vertici del Viminale sulla graticola. Il racconto di come, quanto e da chi sia stata cambiata la deposizione dell'ex questore Francesco Colucci, che la procura di Genova considera falsa, narra una storia di imputati e testimoni
uniti dietro una bandiera comune. Che scelgono cosa dire e cosa non dire, cosa smentire e cosa confermare. Sempre, par di capire, sotto le indicazioni dell'ex capo della polizia, accusato di istigazione alla falsa testimonianza. Ma anche - si scopre leggendo l'intero fascicolo, com'è capitato al manifesto - con l'interessamento
dell'attuale direttore, Antonio Manganelli, di Francesco Gratteri, questore a Bari, e Gianni Luperi, appena nominato capo del Dipartimento analisi dell'ex Sisde (gli ultimi due, imputati al processo Diaz).
La storia comincia alla fine dello scorso aprile quando Francesco Colucci, questore di Genova all'epoca del G8, sta per essere chiamato a testimoniare al processo Diaz e telefona all'ex capo della Digos Spartaco Mortola, imputato in quel processo: «Sono stato a Roma, sono tornato ora da Roma e praticamente io il giorno 3 devo venire a Genova - gli dice - Il capo m'ha dato le sue dichiarazioni. Mi ha fatto leggere, poi dice... tu devi, bisogna che tu un po' aggiusti il tiro sulla stampa». Colucci dovrà dire di aver avvertito personalmente il responsabile dell'ufficio stampa del Viminale, senza avvertire De Gennaro. E' un dettaglio che cambia poco nel racconto del processo Diaz, da cui il «capo» non è mai stato sfiorato, ma De Gennaro pare
voler cancellare dalla propria immagine ogni ombra di sospetto, «e vediamo poi Zucca (pm al processo Diaz e autore dell'attuale indagine ndr) come cazzo reagisce, non lo so». Il 3 maggio Colucci si presenta al processo Diaz. Cambia il racconto su Sgalla e butta lì che a dirigere l'intera operazione sarebbe stato il vice questore di Bologna Lorenzo Murgolo, l'unico funzionario presente la cui posizione sia stata archiviata perché, hanno sostenuto i pm, non ebbe alcun ruolo decisivo. E' soddisfatto e, il 4 maggio, richiama Mortola: «Ieri sera ho chiamato Manganelli. Dico: Guarda Antò... sei stato bravo, è andato tutto molto bene, ce l'hanno detto gli avvocati», Mortola è soddisfatto: «Sì, no, perché poi c'è lì... tu lo sai che c'è sempre la dottoressa De Meo, una funzionaria dello Sco che va a sentirsi tutte le udienze. La mandano su, registra tutto al computer e fa ogni volta...»; Colucci prosegue: «Se il capo vuole maggiori ragguagli, gli ho detto... se vuole sapere qualcosa io sono qua, che devo fare, vengo a Roma?. Poi stamattina m'ha chiamato
il capo. Dice li hai, li hai maltrattati una cosa del genere. Li hai.. li hai... gli hai fatto la..., come ha detto, li hai... e no sbranati, li hai... va be insomma, una frase ha detto. In senso positivo, chiaramente. Che era contento eccetera. Ho saputo da Ferri...che anche Caldarozzi e Gratteri sono stati contenti, diciamo, di questa... Luperi è rimasto contento. D'altra parte è uno scenario nuovo si è aperto per colpa mia diciamo». Il 7 maggio a telefonare è Francesco Gratteri: «E' che volevamo farti
un saluto con Gilberto (Caldarozzi, all'epoca vicecapo dello Sco, indagato ndr). Quando si dicono le cose e si dicono come giustamente e correttamente le hai dette tu allora è doveroso, diciamo, da parte nostra insomma rendere omaggio, come posso dire, alle persone per bene. Ti siamo... vicini e riconoscenti...» Colucci ringrazia e
aggiunge: «Lui (il pm ndr) secondo me c'ha preso uno schiaffone da Manganelli. Ce n'ha preso un altro da me». E Gratteri soddisfatto: «Ma diciamo anche due».
Gianni Luperi, invece, chiama Mortola. E gli assicura, che a questo punto, verrà anche il capo a testimoniare. «Luperi dice che si riferisce al Capo (Gianni De Gennaro ndr)- dice il riassunto della pg - in merito aggiunge di aver appena finito di parlarci e che questi gli ha consigliato di adottare una linea comune in modo che lui venga interrogato da tutti i difensori. Diversamente potrebbe apparire che
la sua deposizione serva solo per alcuni». Il passo successivo sarebbe toccare la posizione di Murgolo. «Quello andrebbe inculato», promette in un'altra intercettazione, Alessandro Perugini, l'ex vicecapo della Digos. L'allegria di Colucci, che si vanta di aver «scardinato» il processo in più intercettazioni, dura per giorni. E il suo continuo parlare della soddisfazione del capo sembra tanto più credibile, perché l'ex questore di Genova non è uomo che abbia bisogno di accreditarsi. E' già in lista per la nomina a prefetto, tra qualche anno andrà in
pensione ed è «tra i nove più alti dirigenti della Ps», come ha confermato a verbale De Gennaro. L'11 maggio, lo chiama Achille Serra, ex prefetto di Roma e oggi commissario anticorruzione: «Hai salvato quel maiale schifoso, dice che De Gennaro ti ha ringraziato», ma la sua protesta si perde in un mare di felicitazioni.
Il cielo si fa improvvisamente scuro solo il 22 maggio, quando Coluccci riceve un avviso di garanzia di cui nessuno aveva avuto sentore. Il Viminale, il manifesto l'ha spiegato martedì scorso, la prende malissimo. Il 23 è Gianni Luperi a chiamare Colucci, «dice di essere dispiaciuto per Colucci e che appena rientra lo chiama poi
dice che comunque è una battaglia in cui alla fine si vedrà chi ha ragione». E il 24, dice Colucci, Manganelli lo incita: «Dobbiamo dargli una bella botta a sto magistrato, dice». Non sembra essere una frase di solidarietà detta a caldo, come ha commentato martedì sera il direttore della Ps. Il 25, dopo un nuovo incontro, infatti Colucci sembra essere certo degli appoggi garantiti: «C'erano il Capo con
Manganelli, dice guarda non ti preoccupare perché qui dobbiamo fa un'azione comune ... e rompere il cazzo a sto cazzo di magistrato». Che il castello costruito potrebbe non reggere, Colucci inizia a sospettarlo solo il 28 maggio: «Va a finì che tutto il resto passa in prescrizione, alla fine io rimango col carciofo in mano insomma (ndr.
nel senso che teme di essere condannato per la falsa testimonianza)». E pensa di giocarsi il tutto per tutto. Come andrà a finire, se ci sarà un rinvio a giudizio oppure no, lo sapremo solo entro la fine del 2007. Quel che sappiamo già oggi è che difficilmente vedremo cambiare strategia ai protagonisti di questa vicenda: «Io ho scoperto una cosa che i processi non si vincono o si perdono in tribunale , ma
si vincono e si perdono fuori dal tribunale...». De Gennaro
«Nessuna pressione su Colucci»
s.pi.
Genova
«Preciso che non ho diretto, né comunicato, né indotto il Colucci in alcun modo a rivedere il contenuto della sua testimonianza imminente in alcune delle sue parti». Il 14 luglio 2007 a Genova arriva il capo dell'ufficio del gabinetto del ministero dell'Interno, Gianni De Gennaro. I pm genovesi lo convocano per interrogarlo, in quanto persona sottoposta a indagini. De Gennaro è accusato di istigazione alla falsa testimonianza nei confronti dell'ex questore di Genova, Colucci. L'ex capo decide di rispondere ai magistrati e si difende, negando ogni addebito. Le contestazioni dei pm si basano su intercettazioni intercorse per lo più tra Colucci e Mortola, tra Luperi e Mortola e tra Colucci e persone non identificate, nelle quali De Gennaro viene tirato in ballo. In primo luogo l'ex capo della polizia nega di aver chiamato Sgalla, sconfessando la telefonata di Colucci a Mortola nella quale l'ex questore di Genova annunciava la propria deposizione: «Il capo ha praticamente fatto marcia indietro e invece io devo rivedere un po' il discorso di quello che ho dichiarato io di Sgalla». De Gennaro risponde all'accusa, confermando quanto aveva già affermato in
precedenza: «Per quanto riguarda la circostanza dell'avviso al dottor Sgalla di recarsi presso la scuola oggetto di intervento, voglio precisare che egli dipende non dal capo della polizia bensì dal capo del dipartimento di pubblica sicurezza. Non avevo alcun motivo di dire "chiama la stampa"».
De Gennaro durante l'interrogatorio ci tiene a fare una premessa: Colucci è uno dei più importanti dirigenti della Polizia italiana, uno dei vertici amministrativi. Per questo motivo, spiega, negli ultimi sei anni i due si sono sentiti e frequentati assiduamente. Poi entrambi sono convocati a Genova, come testimoni nel processo Diaz:
«Nel corso di una breve e fugace conversazione sul dibattimento in questione ci siamo scambiati alcune impressioni su ciò che eravamo chiamati a riferire, nell'ottica di una ricostruzione dei fatti che, nel nostro auspicio, doveva avere come fine la verità». Poco dopo ricorda «di aver fatto con lui (Colucci, ndr) alcuni commenti circa la sua deposizione», ma nega di averlo ringraziato nel modo esplicito riportato da Colucci in una delle sue tante telefonate: «Posso avere espresso un generale compiacimento a commento dell'avanzamento verso una ricostruzione dei fatti improntata alla verità». Incontri ci sono stati, telefonate no; i riferimenti a De Gennaro arrivano sempre da Colucci. Per De Gennaro, però, l'ex questore di Genova «esprime sue valutazioni personali o stati d'animo».
La «prova falsa» che giustificò la Diaz, un artificiere capro espiatorio e 'inchiesta dei pm
La vendetta delle molotov scomparse
Simone Pieranni
«Quelli della Digos avevano detto "ah ce le riprendiamo"». Marcellino Melis, responsabile del nucleo artificieri della Digos genovese, mentre attende una chiamata, parla con un suo collega delle bottiglie molotov scomparse. Ricorda la loro presenza dentro un sacchetto. E conclude: «Però non lo posso dire al magistrato». E infatti Melis, ascoltato dal pool di pm che indagano, contro ignoti, sulla sparizione delle molotov della Diaz, non dice niente. Per questo, alla luce delle intercettazioni in possesso della magistratura, è l'unico iscritto nel registro degli indagati, per false dichiarazioni ai pubblici ministeri. Tutto inizia il 17 gennaio 2007: i difensori dei poliziotti a giudizio chiedono di poter vedere le famose molotov affinché siano convalidati gli eventuali riconoscimenti in aula. Le bottiglie però non si trovano più. Il presidente Barone decide che varranno i riconoscimenti fotografici, ma la tensione sale. Parte un'indagine interna alla questura di Genova, chiusa in fretta e furia in pochi giorni. De Gennaro, allora capo, manda a indagare nel capoluogo ligure Giuseppe Maddalena, dirigente di polizia e direttore interregionale per il Piemonte, Liguria e Val D'Aosta. La conclusione è tra il laconico e il fatalista: le bottiglie devono essere state distrutte per sbaglio. Viene fornita la cronistoria della loro esistenza: il 6 agosto 2001 le molotov sono repertate all'interno del fascicolo contro i 93 manifestanti pestati e poi arrestati alla Diaz; il 16 agosto le prende in consegna l'artificiere Melis e le porta in
questura: è la prassi per il materiale ritenuto potenzialmente pericoloso; il 28 agosto vengono portate alla polizia scientifica: i tecnici devono effettuare i rilievi per le impronte digitali; il 10 settembre 2001 la scientifica trasmette i rilievi a Dominici, dirigente della squadra mobile di Genova, che li invia alla Procura; tra il 9 e il 14 settembre 2001, per ordine del procuratore capo di
Genova, Francesco Lalla, presso lo stadio Carlini viene fatto brillare materiale esplodente di varia natura. Poi il nulla. Nel documento della questura genovese si lascia intendere che le due bottiglie molotov potrebbero essere state distrutte per errore, indicando il nome dell'artificiere, tale Marcellino Melis, come probabile sbadato del caso. Quest'ultimo, in realtà, nelle sue consuete relazioni sulle sue attività, annota tutto in modo molto preciso: è stato anche ascoltato nel procedimento contro i 25 manifestanti condotto dai pm Canepa e Canciani. Durante la sua deposizione Melis è stato preciso nello spiegare le procedure, la documentazione fotografica con le quali solitamente si procede alla distruzione dei reperti. Inoltre gli artificieri ricevono un indennizzo quando distruggono, previa autorizzazione, prove processuali. Nel caso delle due molotov della Diaz, invece, nessuna nota, nessuna foto e nessun indennizzo. Le bottiglie, riconosciute come prova falsa solo nel giugno 2002, quando si scoprì che anziché essere rinvenute alla Diaz erano state
ritrovate in corso Italia, risultano evaporate. Ne parla perfino l'inglese Bbc, ma il caso non si risolve. L'inchiesta interna della questura genovese risulta affrettata e allora la procura apre un fascicolo contro ignoti e comincia ad ascoltare tutti gli
artificieri, gli uomini della Digos di Genova e chiunque, anche in passato, avesse potuto avere a che fare con le bottiglie: l'ipotesi della distruzione dolosa accidentale non convince i pm. In mezzo alle intercettazioni e alle indagini sul caso ci finiscono proprio Mortola, Colucci e De Gennaro.

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